una caccia spietata e sistematica. Essi sono il pretesto per spedizioni in cui il rischio e la messinscena della virilità servono da sfondo per tutti gli eccessi, o sono decimati con metodi quasi industriali (caccia in elicottero) da gruppi organizzati in veri e propri «commandos»; sono insomma minacciati al punto da rendere necessaria una severa regolamentazione, peraltro spesso inefficace. Da noi la caccia è una pratica ludica, legata insieme alla ricerca e alla preparazione della selvaggina (attività maschile) e a un particolare tipo di rapporto con la «natura». Non è raro trovare dei cacciatori profondamente innamorati della fauna e della flora della loro regione (con l'esclusione degli animali predatori, linci, martore ecc. che sono generalmente per loro dei detestabili concorrenti). Allora la scissione radicale che essi operano uccidendo acquista una dimensione sacra e il rispetto per l'animale farà loro trattenere il dito sul grilletto fino a che diventi impossibile limitarsi a ferirlo. Si tratta però in molti casi d'una reminiscenza dei tempi in cui l'animale non era mantenuto artificialmente a disposizione dell'uomo, quando tagliargli la strada (avvicinarglisi) rivestiva un carattere d'eccezionalità o di relativa difficoltà. Non è più questo il caso, ora che l'animale è sguinzagliato in un perimetro chiuso chasses du comte Zaroff1 , in cui bisognerebbe veramente che la selvaggina fosse l'uomo, per avere un capovolgimento del senso e quindi un ritorno al simbolico. Fra le popolazioni di cacciatori-raccoglitori il rapporto con l'animale è (o era) generalmente d'altro tipo. Emmanuel Desveaux (1986,76) racconta che prima dell'arrivo dei missionari, agli Indiani del Big Trout Lake veniva assegnato il nome di una specie animale, nome che restava segreto così da eliminare ogni idea di familiarità. Questo nome permetteva di stabilire una profonda relazione fra il futuro cacciatore e i futuri animali cacciati. Inoltre un particolare rituale segnava la prima cattura di un qua85
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