Il piccolo Hans - anno XVII - n. 66 - estate 1990

luoghi insospettati, anzi tanto più in essi. Così l'animale dice il modo in cui l'uomo pensa il mondo: attraverso di esso «il mondo ci parla e ci insegna» (D. Davvetas, 1987). Nell'animale poniamo le forze animali, pulsionali, sotterranee con cui ci identifichiamo, ma da cui insieme prendiamo le distanze. C'è dunque una continua ambivalenza. Per questo i posti devono essere rispettati e l'animale è un ritorno mitico al primordiale e lo sciamano è lì sempre nell'ombra. Con l'animale dunque il rapporto è più «pericoloso» e ambiguo: la trama simbolica si fa più fitta e i confini, ossessivamente segnati, vengono continuamente violati. Diviene allora importante il recupero dei saperi popolari e l'indagine su di essi. Così è nata l'etnoscienza. Con questo termine, ideato dalla scuola etnografica americana di Yale, che si è formata negli anni '50, si indica, originariamente, la «scienza popolare», i processi e i sistemi cognitivi, in particolare i saperi locali e le nomenclature di tali saperi tradizionali. Per la nuova etnografica infatti la cultura è «il modo particolare che ha una nuova società di classificare, principalmente mediante il linguaggio, il suo universo materiale e sociale» (W.C. Sturtevant, 1964). Siamo allora innanzitutto rimandati alla nominazione: è il nome che sta alla base del rapporto storico tra l'uomo e l'animale. La denominazione è innanzitutto un'espressione che individualizza e distingue: dice i modi diversi di vedere un animale e condensa un'esperienza. Tutti i sensi dell'uomo sono chiamati in causa, la vista, l'udito, il tatto, l'olfatto, il gusto. Il nome esprime un'apparenza, una funzione, un colore, ma anche un odore, oppure un luogo o il legame con un vegetale. Ci accorgiamo allora che le diverse civiltà hanno approcci diversi: vedono, per es. diversamente il colore di un animale. E interviene anche il comportamento degli uomini individuale e collettivo, culturale e psicologico. 22

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