Il piccolo Hans - anno XVII - n. 66 - estate 1990

È il giorno seguente all'uccisione dell'orso che dalle acque di un mare intiepidito, come dalle ingannevoli profondità di un sogno prenatale, affiora il corpo morto del secondo fantastico abitatore dell'Antartide poesca, un «singolare animale di terra», prodotto di una condensazione onirica che ha i lucidi cavilli di una sintassi stravolta. Questo candido simulacro di possibilità incompatibili che tuttavia non si sono reciprocamente mutilate, prefigura arcane metamorfosi. Particolare su particolare, Poe costruisce un ibrido che combina in sé tratti di specie distinte in natura, e deruba identità familiari per distorcerle o negarle, e siglare, infine, nella dislocazione cromatica degli artigli e dei denti, armi naturali tinte del colore del sangue, la sinistra eleganza del nuovo assemblaggio: Lungo tre piedi e alto solo sei pollici, aveva quattro zampe cortissime, munite, ognuna, di lunghi artigli corallini d'un vivido scarlatto. Il corpo era ricoperto da un pelo liscio come seta, d'un bianco immacolato; la coda appuntita come quella di un topo, ma lunga all'incirca un piede. La testa rassomigliava alla testa di un gatto, con l'eccezione delle orecchie, che penzolavano come quelle di un cane. I denti erano dello stesso vivido scarlatto degli artigli2. Come nell'orso gigantesco, così in questa sorta di fantastico ermellino, il rosso avvampa là dove l'occhio è educato a divinare, per associazione, il bianco, e dunque coglie l'osservatore di sorpresa, minacciandolo in virtù di una pennellata di colore erronea che appare come l'unica coerente con il tutto. Nel segno della bicromia bianco/rosso si profila la feroce sacralità magica di un animale materno. La madre/terra/mare è presente, simultaneamente, nell'ibrido, armata, tinta di un sangue indelebile. Nell'isola di Tsalal, dominata dal nero, esso rappresenterà per i neri abitanti un oggetto di reverenza e di terrore, come se 189

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