trasgressiva e centrifuga. Il richiamo alla pittura degli stati d'animo futurista, al di là della puntualizzazione storico-filologica delle convergenze o delle tangenze con la pratica del monologo interiore, vale soprattutto a sorprendere nel monologo la sua istanza di sfondamento: che è l'avanguardia nella sua fase eroica destabilizzante derealizzante, quando la sua straordinaria audacia eversivo-inventiva è insieme lucida coscienza della crisi delle forme, decisa indisponibilità a perpetuarle e fiduciosa, euforica, sicurezza di poterle destrutturare e fondarle di nuovo ab imis. Il fruitore del monologo passa attraverso questa ebbrezza di insubordinazione contro la forma cristallizzata e nello scompiglio o nell'effrazione dei codici avverte il flusso come la metafora portante del romanzo. Certamente è assente in Joyce l'esclusivo segno positivo e quindi superficiale della modernolatria futurista (Joyce- per tornare alla città, in quanto registratore profondo della totalità, non ne espelle gli elementi inquietanti o negativi). E soprattutto si affaccia in Joyce-mentre sembra assente nel solido ottimismo gioioso dei futuristi- la consapevolezza del carattere fittizio, arbitrario, artificioso del linguaggio, che rinvia a un nichilismo vertiginoso. Ma è l'imperativo avanguardistico che fa maturare in Joyce il rifiuto e la distruzione del mondo degli statuti obsoleti; è nell'area del modernismo radicale, dove matura la dissoluzione del radicamento ottocentesco, che Joyce si apre a una pluralità liberata, alla pienezza del reale contemporaneo, in tutta la sua profondità e concreta, multiforme e contraddittoria presenza, svincolata da qualsiasi metafisica riduttiva. Non cogliere i profondi legami con l'avanguardia pittorica in cui lo statuto del figurale assumeva in quegli anni una straordinaria valenza critico-creativa e in cui l'insubordinazione del visivo rispetto al verbale - al Logos (e quindi alla narratività, alla prospettiva ecc.) - era pro72
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