Il piccolo Hans - anno XVI - n. 64 - inverno 1989-1990

Il piccolo Hans rjvista di analisi materialistica 64 inverno 1989-1990 Sergio Pinzi 5 Joyce e le forme del mondo Tomaso Kemeny 10 La lettura di Joyce come perenne transito i seminari Sergio Pinzi 23 UlyssEs Giovanni Cianci 52 L'anima e la città James Joyce Luigi Schenoni 76 Giuliano Gramigna 100 Paola Pugliatti 117 Colin Mac Cabe 159 John Meddemmen 189 Il monologo interiore tra interiorità e esteriorità Finnegans Wake 1.5 104.01 - 112.27 Finnegan sulla spiaggia Avantesto e spazio della scrittura. Appunti su alcune varianti di Ulysses. La voce di Esaù Stephen nella Biblioteca Il linguaggio di Joyce e l'episodio della Prankquean Gabriele Frasca 206 La tegola dal cielo MINUTE Renato Giovannoli 221 L'affare Dracula-Joyce 233 INDICE 1989

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Contardo Calligaris, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola. a questo numero hanno collaborato: Giovanni Cianci, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Gabriele Frasca, Renato Giovannoli, Giuliano Gramigna, James Joyce, Tomaso Kemeny, Ermanno Krumm, Colin Mac Cabe, John Meddemmen, Paola Pugliatti, Luigi Schenoni, Mario Spinella, Italo Viola. redazione: Via Nino Bixio 30, 20129 Milano, tel. (02) 2043941 abbonamento annuo 1990 (4 fascicoli): lire 35.000, estero lire 52.500 e.e. postale 33235201 o assegno bancario intestato a Media Presse, Via Nino Bixio 30, 20129 Milano Registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano Coordinamento editoriale: Rodolfo Montuoro Fotocomposizione: News, via Nino Bixio 6, Milano Stampa: Tipolitografia Meina, Carugate (Milano)

Ioyce e le forme del mondo È con Stanislao, fratello minore, che Joyce intreccia un dialogo sull'infinito, di cui cogliamo i segni-in due paginette del libro di Stanislao: My Brother Keeper, Custode di mio fratello. Sono forse io custode di mio fratello? Rovesciato, il titolo ci rimanda a un mondo ancora vuoto, in cui, tra due fratelli, la primogenitura può essere venduta e l'omicidio la rivendica. Qui, al contrario, James lasciando a Stanislao il posto di fratello maggiore ne fa un custode capace di assumere presso il padre la responsabilità che ne consegue. Ma la collocazione è la stessa. James e Stanislao di fronte ai temi dello spazio infinito e del tempo infinito, o dei loro opposti, uno spazio e un tempo finiti, si ritrovano prossimi alla questione dell'origine. Se James aveva bisogno in un certo senso che qualcuno rappresentasse vicino a lui, per lui, l'ancoraggio a un universo limitato perché egli potesse seguire il Nolano in un'esplorazione oltre i confini del mondo, a Stanislao parlare di un universo finito non pareva molto diverso che pensare a un universo infinito, senza confini, senza tetto e senza fondo, e senza centro: in un caso e nell'altro, sembra solo un <<giocare con sillabe vuote di senso», a Stanislao, il quale si 5

accontenta di considerare che, anche se si sente meno di un microbo nel sistema planetario, awerte l'assurdo di afferrriare di essere il solo a pensare e a volere nell'universo. Deve dunque esserci Dio, oltre non si sente di andare. . «Ah è questo che vai ruminando mentre giri intorno alla b�lla città di Dublino?». La reazione scherzosa di Jim è davvero sorprendente: mostra nell'arido argomentare del fratello, nel suo impacciato «Cogito ergo Deus est», quella sorta di fissazione omicida rispetto al padre indegno e ubriacone che costringerà per tutta la vita i movimenti di Stanislao e i suoi pensieri. E lo fa, di svelare il fondo nascosto dietro il problema dell'esistenza di Dio - per Stanislao quel padre non ha diritto di esistere -mostrando dietro l'immobilismo anchilosato del fratello la lentezza del moto ineluttabile che lo fa gravitare, come un corpo celeste povero di vita, intorno al corpo troppo amato della madre, identificata in una bella, popolosa città. La bella città di Dublino. Tra i due fratelli si gioca una grande partita morale in cui ne va del riguardo o dell'indifferenza rispetto alla forma del mondo. La fedeltà del minore alla madre morta lo porta a chiudere nel suo cuore ciò che si sforza di scacciare dal cielo: un «senso del peccato» che è in verità l'eredità, il deposito, il resto della detestata ebbrezza paterna. A questo «sense of sin» attinge l'esaltazione di un «sense of supreme responsibility» in cui balugina l'aspirazione di assumersi il compito, il modo di essere, dell'uccisore del padre. Come alleviato da questa usurpazione, da questa assunzione da parte delfratello più piccolo dell'ossessione edipica, James intraprenderà un programma ben diverso di riparazione, di riscatto della figura del padre, in cui risiede il pathos così peculiare di Ulysses. Il «giocare con le sillabe» di Stanislao diventa così il perfetto stilismo di Joyce e l'equivalente delle cure che Van Gogh dedicava al proprio studio: un senso di suprema responsabilità posto in quella che non si presenta come un'opera di «generazione» ma come un'opera di ri-produzione, 6

così per Van Gogh l'enfasi sul copiare da modelli, in libri o viventi, e in Joyce il calco omerico, ma anche lo scrupolo di conformare tutti i suoi personaggi a modelli reali e cambiando piuttosto di personaggio che di modello, se i modelli cambiavano (come era cambiata Nora da Molly a Anna Livia). Eaccanimento con cui da secoli si discute intorno al restauro delle opere d'arte mostra che la questione è vitale nel significato più letterale del termine. Ogni restàuro è una lotta con l'originale perduto: ricoperto, sostituito da successivi interventi, come ritrovare il tocco dell'artista? Si va così dalla pulitura, allo strappo, a uno scavo che non lascia altro che le scarne linee di un abbozzo, la sinopia in cui si mantiene l'illusione di un atto di generazione, di un gesto originario cui l'incompiutezza e l'approssimazione regala però una sorta di originalità abortiva. La moderna imbalsamazione chimica di pitture, edifici e sculture, vale come definitiva sterilizzazione dell'arte. Lo sterminio dei germi creativi è più diretto e risolutivo di un raffronto prolungato e ripetibile che impone, attraverso l'uso di mezzi limitati (mezzo fiammifero, la cera di una candela, la capocchia di uno spillo abbrunito dal nerofumo), di contemperare calcolo e approssimazione, igiene fino all'igienismo e sensualità ai limiti dell'inconfessabile: come nel capitolo matematico e idrico di Ulysses, la mirabile Heimkehr di Itaca, in cui una moderna tecnica di fai-da-te registra ogni piccola modificazione, dallo sgocciolio di un rubinetto allo spostamento di un mobile, e l'opera di restauro è esemplificata con i semplici tocchi presi a prestito daBruno, Spinoza e dalla computisteria di un ragioniere, al fine di attrarre l'infinito nella pentola che bolle. Silenziosamente, come la sedia che stava nello studio di Van Gogh, awiene l'osservazione e il confronto tra il pene di Bloom e quello di Stephen intenti alla minzione. Confronto sostenibile e che rende sostenibile anche il pensiero dell'infinita gradazione nel grande e nel piccolo fino alle mille e mil7

le minute esistenze nascoste sotto monticelli di terra, «microbi, germi, batteri, bacilli, spermatozoi». La cura degli oggetti, il recupero dall'età dei quattro anni di una curiosità spostata sull'abilità dell'artigiano, l'idraulico in particolare, rende praticabile la meditazione (<sugli incalcolabili trilioni di miliardi di milioni di molecole impercettibili contenute per la coesione dell'affinità molecolare in una singola testa di spillo: nell'universo del siero umano costellato di corpuscoli bianchi e rossi, essi stessi universi di spazio vuoto, costellati di altri corpuscoli, essendo ciascuno, in continuità, un universo composto di corpuscoli divisibili in cui ciascuno suddivisibile in divisioni di corpuscoli componenti ridivisibili, dividendi e divisori sempre diminuendi senza reale divisione fino a che, se il processo fosse spinto abbastanza avanti, si arriverebbe a niente in nessun posto mai». Dalla punta dello spillo alla via Lattea, Joyce sembra misurarsi allo stesso modo dello psicotico con la sostanza del godimento paterno, e suo, giacché lo stesso plasma immortale scorre di generazione in generazione. Ma la schiuma da barba che all'apertura del romanzo veniva levata in alto con le parole allusive a pratiche sessuali non riservate: (dntroibo ad altare Dei», alla fine scompare dall'((acqua bollita» usata per una rasatura notturna, quando l' ((assenza di luce disturba meno della presenza del rumore» (e la misurazione regola la partecipazione al godimento paterno). Con il suo Cogito ergo Deus est, Stanislao si dichiarava interessato a Dio appena un po' più che all'astronomia cioè pochissimo, quasi niente, e la gradazione scivola da una concezione del grande come una regione (<unchartable», irraggiungibile dal tocco riparatore di una carta geografica, popolata di feroci animali («Hic sunt leones»), allo sforzo di immaginare l'infinitamente piccolo che, dice Stanislao, (<arrestava il cuore come una mano di ghiaccio». Come nel titolo del poema latino di Bruno, l'Immenso (l'universo co8

eguale al padre) e gli innumerevoli (i semi, i fratelli) si richiamano a vicenda. Ma in questo scivolamento, e nel far apparire il degrado dei lineamenti del volto paterno, solo fissandone il corrompersi con la vernice di un algido argomento di teologia razionale, sfugge a Stanislao che a irrigidirsi è la sua stessa fisionomia. Così alla sua pretesa di estendere all'universo il grigio regolamento celibatario dell'autonomia irlandese («l'm a Home Ruler in the Universe, tao») Joyce, che avrebbe invece ricondotto all'interno della casa la vertigine del cosmo -è questo il senso della sua Heimkehr -, gli rimanda << comicamente»: «C'è uno strambo, tetro tocco olandese intorno alla tua fisionomia. Compiango la povera donna che si sveglia per trovarsela accanto sul cuscino». A cui viene da accostare un altro tocco olandese, quel tocco in Itaca che rimandq.. però a Spinoza con l'immagine «astronomica» di Molly e Leopold a letto, in riposo rispetto a se stessi e l'uno con l'altro, eppur ruotanti con la terra «attraverso i sentieri sempre mutevoli dell'immutabile spazio». L'Ulysses di Joyce allo stesso modo del corpus delle lettere di Van Gogh configura una cura preventiva della psicosi, un «come non diventare psicotici» che se non elimina il pericolo ripresentatosi alla fine per Van Gogh e indirettamente anche per Joyce con la malattia della figlia Lucia, apre però lo spazio di una sospensione in cui l'oscuro impulso «a un fare violento, a penetrare, a mandare in frantumi, ad aprire in qualche luogo un buco» incontra il freno che lo piega a perseguire l'infinito «come colui che discorrendo per la circonferenza cerca il centro». Sergio Finzi 9

La lettura di Joyce come perenne transito Sofia, nel dialogo primo di Spaccio de la bestia trionfante (1584) di Giordano Bruno, afferma che ogni diletto non consiste che «in certo transito, cammino e moto. Atteso che fastidioso e triste è il stato de la fame; dispiacevole e grave è il stato della sazietà: ma quello che ne deletta, è il moto da l'uno a l'altro. Il stato del venereo ardore ne tormenta, il stato dell'isfogata libidine ne contrista; ma quel che ne appaga, è il transito da l'uno stato a l'altro». L'entrata nel macro-testo joyciano è libera, si può iniziare, in discesa, da Finnegans Wake, esplorando à rebours la sua produzione, o introdursi disciplinatamente, in salita, da Dubliners, in ogni caso il divieto di uscita ci vincolerà a una fruizione in sé incompiuta. La prima osservazione per un lettore in transito è che lo stile joyciano non è mai «espressivo», non traduce l'espandersi dell'immaginazione dell'autore; si tratta di un polistilismo mediato e connotativo, ipermimetico, mutevole secondo la cangiante interiorità dei personaggi e/o del contesto tematico; in ogni frammento lo stile tende a orientare verso la totalità non finita e inesauribile del testo. Il lavoro di riscrittura mentale richiesto dal lettore aumenta da libro a libro, in quanto, a partire da Dubli10

ners, cresce la distanza tra la costruzione del Libro e la raffigurazione del mondo, tra scrittura e narrazione, tra l'essere nel linguaggio e l'essere nel mondo (si veda la forte sensazione indotta di trovarsi a Dublino), per quanto il rapporto tra i termini in contrapposizione tenda sempfe a divenire complementare anche se la ristrutturazione senza residui pare impossibile. Una seconda osservazione riguarda le mutevoli positure richieste dall'opera joyciana. In modo riduttivo si può affermare che ovunque in Joyce la logica narrativa viene rispettata e la struttura semantica è coerente, mentre le forme del significante vengono gradualmente sempre più trasgredite, fino a raggiungere un'opacità quasi perfetta in Finnegans Wake. Ciò non toglie che già in Dubliners la lettura tenda a disarticolarsi se non si saturano implicature, ellissi, silenzi, se non si attivano segmenti di narrato di grado zero, presupposti dalla logica della narrazione. Mentre i luoghi da saturare, la loro distribuzione è oggettivabile, le modalità della saturazione non possono raggiungere la condizione della necessità incontrovertibile (neppure relativamente a un punto di vista metodologico o ermeneutico coerente in sé). In A Portrait ofthe Artist as a Young Man non è decidibile dove inizi la tensione lirica che definisce l'«Artista da giovane» e dove la lettera della diffusa epifania finisca per oggettivarne gli stati d'animo secondo i modi sfumati dell'ironia che orienta a dissolverne il medesimo alone epifanico in revisioni parodiche. In Ulysses, di cui tratteremo più analiticamente, ognuno dei diciotto episodi muta modalità di narrazione, mentre lo sviluppo del narrato avviene «regolarmente», per quanto la ripetizione di vari motivi porta la superficie referenziale e autoreferenziale a inabissarsi. In Finnegans Wake le condensazioni-disseminazioni di elementi lessicali e tematici contrappuntano il narrato al 11

punto di farne sospettare, a prima lettura, la dilazione. Ci rendiamo comunque conto che affermare la coerenza semantica dei testi joyciani, per quanto sia un asserto al di là di ogni sospetto per chi li abbia a lungo frequentati («basta controllare»), suoni analogamente all'invito di contare le stelle che accendono, di notte, la volta celeste; più si osserva, più si individuano costellazioni, ma le sorgenti di luce cosmica eccedono il potere della luce degli occhi. Lo smarrimento, sul piano del contenuto del macrotesto joyciano, è favorito più che dalle serie di differenze, dalle costellazioni di somiglianze costituite dal ritorno sui medesimi luoghi, atti, deformati dalla mutazione di prospettiva; dalle maschere composite dei personaggi che ora somigliano a persone realmente esistite, ora a personaggi mitici o letterari, ora a tipi dell'immaginario collettivo, tanto che la voce che esce dalle fessure che formano le loro labbra è una voce tendenzialmente corale, e i segmenti del narrato, lineari nella materica manifestazione della scrittura a stampa, formano campi magnetici, serie di punti di attrazione per catene di potenziali fughe intertestuali e interdiscorsive, e ciò in misura significativamente superiore a ogni altra forma di narrativa. La logica intratestuale, individuabile per scarti nel macrotesto, porta a interpretare la rappresentazione del mondo in Joyce secondo una fuga di modelli di Libro, che dalla serie di «short stories» muove verso il «Work in Progress», disponendo le rive della scrittura alle quattro onde («four waves», le «onde» relative ai quattro punti del1'orizzonte da cui il mare circonda l'Irlanda) ricorrenti in Finnegans Wake (riferibili, riduttivamente, ai «Four Masters»), e in un passo chiamati con i nomi di «Rurie, Thoth e Cleaver». Si noterà come la denominazione riguardi solo tre «onde», «3 waves of I», «3 onde dell'io» o, se si vuole, «3 cenni dell'io», come li definisce Joyce nel suo «Scribbledehobble notebook», dove li elenca nella 12

grafia che segue «Thoth, Ruri, Cleeva», e si osserverà come dalla mancata nominazione si potrebbe tentare una pur faticosa rilettura del macro-testo, facendo leva sul foltissimo paradigma (un vero e proprio labirinto) degli «errori» volontari (ma come distinguerli da quelli inconsapevoli e dagli errori meccanici?), a partire dalla significativamente errata esecuzione della canzone «I Dreamt that I Dwelt» da parte di Mary nel racconto «Clay» in Dubliners. Il rigore con cui gli «errori» joyciani vengono distribuiti, si intreccia con la ossessiva correttezza dei riferimenti extratestuali, crono-topologici, toponimici. Ma il problema della correttezza e dell'esaustività dei riferimenti variati e ricorrenti non è che un'esca per il lettore attento che corre il rischio di abboccare all'amo più vistoso gettato tra le onde. Una tipologia delle esche metterebbe in rilievo solo il profilo di uno dei labirinti intessuti nel macrotesto joyciano, un viluppo di labirinti da cui uscire simultaneamente è progetto vano. Ne consegue che l'opera joyciana è costruita in modo che nessun tipo di lettura possa attraversarla per intero, per quanto ogni frammento di tragitto valido dia l'impressione di svelare una uscita possibile. Si tratta di un'illusione che ci culla nell'errore che le opere d'arte vadano «consumate» in un tempo limitato. Forse più di qualsiasi altro scrittore Joyce, o meglio il «corpus» della sua opera, ci insegna che un'opera d'arte è un'esperienza inesauribile, che il possesso intellettuale del Libro sia un'esperienza dilazionata, forse sempre più imminente ma mai attuale, il tempo di lettura coincidendo con quello, effettuale, della vita, la lettura consistendo anche di un rapporto obliquo del testo con la coscienza del lettore, sempre più dilatata e arricchita da esperienze dirette e indirette. Fondato sul topos del viaggio, vale la pena chiederci «dove inizia Ulysses?». Vi sono n entrate nel nodo di labi13

rinti da cui Stephen-Telemaco, Bloom-Odisseo, Molly-Penelope e i loro lettori, una volta addentratisi, non potranno più uscire. La strategia delle composite maschere apre a digressioni, confronti intertestuali che deviano la lettura in aree linguistico-culturali e storico-geografiche tra di loro lontane. Nell'episodio sesto («Ade») Buck Mulligan, lo studente di medicina (nel primo episodio è anche «Mefistofele», e come «usurpatore» anche un «procio» a Itaca, «re incestuoso» a Elsinore, una parodia di «sacerdote» a Dublino) viene definito da Simon Dedalus (padre di Stephen) come «fidus Achates» (così Stephen diviene anche «Enea»), aggettivazione più volte attribuita a «Achates» nell'Eneide prima della discesa di Enea nell'Ade. Se Virgilio nel libro VII segnala di avviarsi al momento maggiore della sua opera («maius opus moveo»), nel settimo episodio («Eolo») di Ulysses, «!'.artista da giovane» viene invitato dal direttore di un giornale a scrivere articoli per dare maggiore «mordente» al foglio («I want you to write something for me, he said. Something with a bite in it. You can do it». «Voglio che tu mi scriva qualcosa, disse. Qualcosa con del mordente. Ce la puoi fare»). Nel flusso di coscienza di risposta, Stephen interpreta l'espressione del volto del giornalista come segue: «See it in your face. See it in your eye. Lazy idle little schemer» («Lo leggo nella tua faccia. Lo leggo nei tuoi occhi. Piccolo indolente intrigante»). Si potrebbe vedere nella scrittura dello stesso Ulysses la risposta di Stephen-Joyce alla provocazione del maturo gazzettiere. L'espressione ingiuriosa «Lazy little schemer» («Indolente piccolo intrigante») viene esplicitamente rivolta e «ripetuta» a Stephen nell'episodio quindicesimo («Circe»), nel bordello diretto da Bella Cohen, da Padre Dolan (o meglio, dalla sua apparizione fantastica). Il segmento iterato ci immette nel più vasto circuito di un labirinto del macrotesto joyciano e ci rimanda al primo 14

capitolo di A Portrait dove Padre Dolan sferza le mani di Stephen non credendo che la rottura degli occhiali, che gli impedisce di scrivere, sia innocente («Lazy little schemer. I see schemer in your face. Where did you break your glasses?» -«Indolente piccolo intrigante. Leggo intrigante nella tua faccia. Dove hai rotto gli occhiali?»). L'episodio ci rinvia, a sua volta, alla biografia di Joyce che nel settembre del 1888 (a sei anni) fu iscritto al Conglowes Wood College, dove il padre gesuita James Daly, prefetto degli studi, gli misurò vari colpi sulle mani per il presunto «intrigo». Il «pandybat» di Padre Daly-Dolan si situa nel medesimo paradigma dello «stick» («bastone») di Mr. Vance nella epifania prima, annotata, nel 1900, da Joyce, fondata su un ricordo d'infanzia. L'epifania («Apologise» - «Chiedi scusa») ricompare all'inizio del A Portrait e si sviluppa nella configurazione dell'anticonformismo dello «artista» (memorabili il motivo del «I will not serve» - «Non servirò» - in A Portrait e il luciferino «Non serviam» riconfermato in «Circe» nello Ulysses). Il materiale esistenziale si espande a perdita d'occhio (l'immaginazione di Joyce è prevalentemente mnestica) in costellazioni radicalmente critiche della famiglia, della Chiesa e dello Stato. Ovviamente i riferimenti biografici non sono che uno dei labirinti attraverso le cui anse la scrittura joyciana ci obbliga a transitare (il piacere della fruizione consiste nel moto reso possibile da un labirinto all'altro, senza che si riesca a percorrerne per intiero alcuno), pungolandoci con il miraggio della raffigurabilità di un mondo-Libro possibile, dove ogni atto narrato e di scrittura trovi il proprio riscatto in percorsi di senso che illuminino, allo stesso tempo, la coscienza teatralizzata dei personaggi e la scena della scrittura. Differenziati punti di vista, il polistilismo, il rapporto virtualmente istituibile tra contesti letterari, culturali e storici distanti, rendono il transito 15

vertiginoso. È pure vero che, con il tempo, l'abitudine al manifestarsi di sempre nuove e sorprendenti pratiche compositive, all'inesauribile serie di rovesciamenti parodici, ai prestigi formali, ci fa riconoscere in Joyce un maestro, pur incomparabile, del manierismo. La sua poetica ipermimetica e polistilistica lo porta a produrre forme nuove dell'«omato» che motivano, sul piano dell'espressione, il senso immanente delle sue architetture poli-labirintiche, dove le parole finiscono per moltiplicare indefinitamente le proprie possibili funzioni. La maestria indiscussa dell'autore giunge a evocare nel profilo della propria opera i labirinti «effettuali» di un'epoca culturale e letteraria giunta all'esaurimento, ma incapace, tuttavia, di morire. Forse il maggior valore iscritto nel lavoro dell'artista è quello di immetterci in circuiti di lettura orientati verso la sintesi impossibile di una cultura al tramonto. Uscire da questa selva di labirinti dimostrandosi impossibile, al mito di Dedalo viene spontaneo contrapporre quello di Icaro e allo «Artista giovane» non rimane che accettare la sfida di intraprendere un'opera che oscuri la «valentia» del maestro irlandese. Ma riannodiamo il nostro discorso, osservando come la cosa più ragionevole sia entrare in Ulysses dall'inizio, dal primo episodio, dove si assiste alla prima colazione di Stephen, Mulligan e Haines. Ma il tempo del narrato sovrappone a questo episodio («Telemaco») l'episodio della dea «Calipso», dove Bloom prepara (episodio quarto) un abbondante «breakfast» per Molly. Lo stesso episodio finale («Penelope»), attraverso il famoso monologo interiore di Molly (trentasei fitte pagine articolate in otto «frasi» di mostruosa lunghezza) ridisegna i tre protagonisti (Stephen, Bloom e la stessa Molly) della storia, facendo pensare a una riscrittura del libro che riafferma un proprio ulteriore avvio là dove ci si aspetta uno scioglimento delle tensioni narrative. 16

Il viluppo di labirinti va, comunque, anche se in modo ridotto, specificato. Il «labirinto stilistico» si fonda sul fatto che, come abbiamo già accennato, Joyce non si identifica in uno stile «personale», ma, titanicamente, nelle n possibilità stilistiche che la lingua inglese (intessuta dell'anglo-irlandese, dello slang americano, e di stilemi «babelici» derivanti da calchi di espressioni di varie altre lingue) esibisce. Si tratta di uno stile connotativo, di una pratica compositiva in cui la forma tende a raffigurare, mimare motivi e temi attraverso il linguaggio (o coscienza) dei personaggi. L'apice di questo fenomeno lo incontriamo nel quattordicesimo episodio («Le mandrie del sole»). La fecondità della lingua inglese, manifestata attraverso pastiche di stili a partire da stilemi della letteratura anglosassone (ricordiamo, tra gli altri, toni di Bunyan, lo stile diaristico di Pepys, parodie di Dickens), qui s'innesta sul valore della fecondità biologica e sul motivo della nascita così come vengono percepiti dai personaggi. L'ipermimetismo stilistico, raggiunge, comunque, i risultati «virtuosisticamente» più impressionanti nelle prime pagine dell'undicesimo episodio («Le sirene»), dove l'autore usa il materiale verbale in analogia con le esigenze del linguaggio musicale coevo, pur senza smarrire il bandolo della significazione narrativa. Abbiamo, poi, il labirinto delle «strategie compositive»: ogni episodio muta di strategia spaesando il lettore, obbligato a cambiare «occhiali» per aggiustare il proprio sguardo alle richieste del testo. Il decimo episodio («Le simplegadi»), centrale materialmente al libro (episodio cuscinetto tra due serie di nove e otto episodi), si articola per diciotto macrosegmenti narrativi che traducono i diciotto episodi che strutturano il libro. Essendo i macrosegmenti costituiti da eventi simultanei, l'episodio mima un modello immanente all'opera, e come ogni modello si spazializza (si tratta di per17

corsi dublinesi effettuati dai vari personaggi) perdendo la forza insita nella dinamica temporale, ma permette all'autore di esplicitare come le strade di Dublino formino un ulteriore labirinto inglobato nel testo. L'episodio settimo («Eolo») si distribuisce per sessantatre brani marcati da un titolo (che rende ogni brano tipograficamente omologo a un trafiletto, in accordo col contesto della redazione di un giornale). Il lunghissimo quindicesimo episodio («Circe»), mima la struttura del testo drammatico e teatralizza momenti notturni «effettuali» nel quartiere dublinese dei bordelli oltre che sogni a occhi aperti e incubi di Bloom e Stephen (qui le isotopie della realtà e della fantasia si confondono sistematicamente). Il diciassettesimo episodio, «Itaca», si struttura per domande e risposte, e mima l'andatura del catechismo, esplicitando ogni dettaglio descrittivo e passaggio logico al punto di deformare gli eventi in un «divertimento» che manifesta l'insensatezza di ogni tentato rispecchiamento e di ogni presunta riproduzione fedele del «reale». La varietà delle «strategie compositive» concorre alla disposizione poli-labirintica delle forme significanti, anche perché esperienze, eventi, memorie, temi, motivi ritornano (nell'arco di una «giornata») variati e rivariati, producendo, da una parte, un eccesso di differenze (sul piano dell'espressione), e dall'altra, un eccesso di somiglianze (sul piano del contenuto) finendo per ingarbugliare sempre di più i percorsi del senso, bloccandone la manifestazione chiara e distinta nello spessore di veri e propri nodi narrativi. Se si tenta di sciogliere questi nodi, più che ottenere il dipanamento in un lineare filo di Arianna, utile per orientare i propri passi, si termina per ispessire la consistenza del labirinto molteplice, innalzando nuove mura, determinando ulteriori anse, trompe-l'oeil, esche. Per esempio in «Circe», nel bordello di Bella Cohen, 18

Stephen, secondo la didascalia parateatrale, tende la mano a una prostituta, a Zoe, «and chants to the air of the bloodoath in The Dusk ofthe Gods» («e salmodia sull'aria del patto di sangue del Crepuscolo degli Dei»). Segue un'apparente citazione di tre versi dal libretto wagneriano. Essa falsifica la scena del giuramento di sangue tra Sigfrido e Gunther (Crepuscolo degli Dei, atto I), non corrispondendo ad alcun passo, mentre si aggancia, per un verso («Hagende Hunger») alla domanda di Zoe che precede il salmodiare di Stephen («Is he hungry?»); invece il verso «Fragende Frau» («moglie interrogante») aggancia il contesto a un passo di Le Valchirie (atto I, scena 2) dove Siegmund si rivolge a Sieglinde come a una «Fragende Frau». Qui il labirinto degli «errori», presumibilmente volontari, si apre a una frammentaria configurazione wagneriana che si completa con il grido «Nothung» di Stephen che nomina la spada che serve a Sigfrido per abbattere una decrepita stirpe di Dei corrotti. Ma sia il contesto «reale» (intrecciato con un piano di significazione «fantastico») del bordello, che l'arma dello «artista-eroe», un bastone di frassino, non portano all'abdicazione parodica di Wotan-Bloom, ma all'avvilente fracassamento di un lampadario. L'«errata» citazione di Le Valchirie ci permette, comunque, di ricordare come in questa opera wagneriana Siegmund (padre di Sigfrido) tragga la spada dal tronco di un frassino (si veda il bastone di frassino di Stephen e il possibile transito nel motivo labirintico della «ricerca del padre») e gli conferisce il nome «Nothung». La spada, in seguito infranta, nella stessa opera, da Wotan, viene riforgiata da Sigfrido (in Siegfried) che con essa uccide il drago Fafner (possibile transito nel motivo labirintico del desiderio di Stephen di liberarsi del «fantasma della madre e dalla cultura cattolica»). La condensazione dell'isotopia «reale» con quella «fantastica» può forse essere vantaggiosamente risolta con 19

l'enucleazione della differenza tra il gesto eroico di Sigfrido e il gesto teppistico di Stephen, differenza che getta una luce parodico-patetica sul personaggio joyciano e sul contesto storico-culturale in cui si trova situato. Il fenomeno che ci pare interessante sottolineare è come qui, come ovunque in Joyce, si manifesti, in tutta la sua forza tragica, la perdita moderna della possibilità di una visione globale del percorso testuale (omologa alla contemporanea impossibilità di una visione globale del sapere). Non solo, però, è impossibile, simultaneamente sciogliere nodi intertestuali mitici, intratestuali diegetici e interdiscorsivi antropologico-storici, ma il testo joyciano tende letteralmente a lacerarsi e ad esplodere nella direzione molteplice di sovradeterminate direzioni di lettura. Dal punto di vista del contesto narrativo, Stephen tenta di dissolvere (con il suo mentalmente riforgiato «Nothung») la manifestazione fantastico/fantasmatica della madre morta (richiamo all'incontro, nel libro XI dell'Odissea, dell'Odisseo con la vecchia genitrice?) e terrifica per il rivolo di bile verde che le cola dall'angolo delle labbra, per il volto decomposto privo di naso e per le parole che richiamano il figlio alla dottrina della Chiesa. Ma l'individuazione di espressioni verbali iterate, rinviano anche al primo episodio («Telemaco») dello Ulysses: «Silently, in a dream she had come to him after her death, her wasted body within its loose brown graveclothes giving off an odour of wax and rosewood, her breath... reproachful, a faint odour of wetted ashes» («Silenziosamente, in un sogno era venuta da lui dopo la morte, il corpo corrotto nello scuro sudario sciolto espandeva un odore di cera e di palissandro, il suo respiro... rampognante, un vago odore di ceneri bagnate»). Qui, nel primo episodio, la figura materna ritorna a Stephen alle parole pronunciate da Mulligan che dalla Torre osserva il mare («Our mighty mother» - «la nostra 20

madre possente»), inglobandone l'immagine antropomorfa in una tessitura intertestuale omerica («Epi oinopa ponton» - «Sul mare di vino scuro», Odissea I, 183; II, 421; III, 286; IV, 474) e swinburniana («I will go back to the great sweet mother» - «Ritornerò alla grande dolce madre», si veda la stanza 33 della poesia «The Triumph of Time»). La fuga delle differenze/somiglianze stabilite dalle tensioni intra e intertestuali richiederebbe una non definibile quantità di considerazioni. Ci basterà notare come la domanda rivolta dal fantasma materno a Stephen nel bordello «Who had pity for you when you were sad among the strangers?» («Chi ebbe pietà di te quando eri triste tra gli estranei?»), si ritrova nell'epifania 21 (si veda il quaderno delle epifanie annotate tra il 1900 e il 1904 dal giovane Joyce), un'epifania che secondo il fratello dell'autore, Stanislaus, ha avuto origine da un sogno fatto da Joyce a Parigi nel 1903 (quando la madre era ancora viva). La frase è identica se non fosse per il tempo dei verbi («Who has pity for you when you are sad... ?»). Nel contesto dell'epifania citata, la figura della madre «rampognante», che Stephen-Sigfrido tenta di dissolvere definitivamente nella scena del bordello, si confonde con quella della Vergine Maria: «She comes at night when the city is still; invisible, inaudible, all unsummoned. She comes from her ancient seat to visit the least of her children, mother most venerable, as though he had never been alien to her...» («Viene di notte quando la città è cheta; invisibile, inaudibile, mai chiamata. Ella viene dalla sua antica dimora a visitare l'infimo dei suoi figli, la madre più veneranda, come se egli non si fosse mai estraniato da lei»). Si intende, l'origine anche onirica della identificazione testuale frequente, da parte di Stephen, della figura materna con la Chiesa. Si riconferma, quindi, che la trascrizione paratestuale dei materiali esistenziali e onirici non è che uno dei labi21

rinti del viluppo che secondo noi è una figura del caos, la cui complessità compositiva corrisponde a fasci di possibili ordini, riducibili teoricamente (in sé e per sé) a modelli parziali di lettura ricompensati dal piacere del «ritrovamento», ma controbilanciati dal piacere più intenso del transito dai labirinti attraverso cui si muovono i personaggi a quello paratestuale, dal linguaggio del testo alla sua perenne possibile riscrittura mentale. Le turbolenze frammentanti la lettura inducono a un movimento di continua formazione e dissoluzione di immagini, rese misteriose e fuggitive per la loro mobilità intra e intertestuale. La loro funzionalità narrativa è contrappuntata, quando non sommersa, dal «surplus» estetico prodotto da uno stratificarsi della scrittura corrispondente a un consapevole disegno di rendere la significazione inesauribile. Si tratta di una pratica compositiva fondata sull'espunzione pregiudiziale e sistematica di ogni traccia di spontaneità «organica» e che ci fa definire le poetiche di Joyce come afferenti a un'estetica del caos organizzato. Nel tentativo di sciogliere i nodi narrativi joyciani il lettore si trova a oltrepassare le colonne d'Ercole dell'intratestualità per naufragare nell'inferno di un sapere sempre più vertiginosamente frammentato. In questo senso l'opera di Joyce è anche un composito «correlativo oggettivo» della coscienza della modernità. C'è soltanto da chiedersi se l'esultanza del giovane artista, a chiusura di A Portrait, è stata definitivamente smarrita nel rovesciamento parodico divenuto epocale («O life! I go to encounter for the millionth time the reality of experience and to forge in the smithy of my soul the uncreated conscience of my race.» - «O vita! Vado a incon- . trare per la milionesima volta la realtà dell'esperienza e a forgiare nella fucina della mia anima la coscienza increata della mia razza.»). Tomaso Kemeny 22

Sergio Pinzi UlyssEs Dal linguaggio dell'inconscio al silenzio dell'Es, dalla direzione dell'inconscio alla fonna dell'Es . . . i seminari

26 novembre 1987 Cosa leggere, cosa procurarvi, quest'anno? Innanzitutto, come avrete capito dal titolo, l'Ulisse di Joyce. Esiste in una traduzione italiana di Giulio De Angelis, nell'edizione Mondadori (c'è anche un'edizione economica). I.:Ulisse è il testo base che leggeremo sistematicamente, però sarebbe utile che da parte vostra lo circondaste di letture che riguardano sempre Joyce, dei Racconti di Dublino, del Portrait, il Ritratto dell'artista da giovane, e poi di tutto quello che vi riesce di trovare, o che vi attira, a partire dalle Epifanie, che sono apparse un paio d'anni fa da Mondadori, poi passando per l'edizione nella «Biblioteca blu» Mondadori della Telemachia, cioè dei primi tre capitoli - per chiamarli così -dell'Ulisse, edizione che porta anche il testo originale inglese. Vi segnalo poi un'operetta,· pure molto utile; che è James Joyce. Ulisse. Guida alla lettura. È utile perché fornisce dei dati e delle notizie che permettono di comprendere meglio l'articolazione, la struttura di quest'opera di Joyce che, come sapete, ha presente, ricalca, ripete, in un certo senso, e rielabora la struttura dell'Odissea, e che però contiene anche un'infi25

nità di dati, di notizie, di riferimenti biografici della vita e dell'ambiente di James Joyce. Non è soltanto un poema che ha «osato» riprendere, riprodurre l'Odissea, ma è anche una specie di autobiografia, una grande opera morale, una specie di immenso Bildungsroman, com'è il Meister, di cui pure in passato ci siamo occupati, ed è anche l'artatomia, il ritratto di una città, che è Dublino. Per chi è in grado di farlo, sarebbe anche utile procurarsi l'edizione originale inglese. L'altra opera fondamentale da affiancare a questa - perché faremo una lettura parallela, lavoreremo su due tastiere, su due tavoli, come spesso faceva Freud, è ancora Darwin, non I'Origin, ma la Descent of Man. Perché ve lo dico in inglese? Lo capirete meglio nel prosieguo di questa introduzione, ma lo dico anche perché sarebbe molto opportuno che lo leggeste in inglese in quanto l'unica edizione italiana di quest'opera è estremamente scorretta. La Descent of Man, malamente tradotta in italiano con Eorigine dell'uomo è nell'edizione Newton Compton. Dunque, lettura parallela: questo vi propongo, capitolo per capitolo, lettura sistematica di queste due opere: l'Ulisse e la Descent of Man. Oltreché, naturalmente, di Freud. Quale Freud? In particolare il Freud da cui siamo partiti, che abbiamo attraversato nel seminario dell'anno scorso, e a cui siamo approdati, perché in sostanza è lì che siamo rimasti, a quell'«abicì» del testo su Alcuni meccanismi di gelosia, paranoia, omosessualita, dietro il quale abbiamo visto la nuova configurazione dell'apparato psichico, Io, Es e Super Io. Per questo ho intitolato UlyssEs il seminario, perché sarà un tentativo di individuare, di riconoscere, o semplicemente di tracciare i lineamenti - e dico fondatamente i «lineamenti», perché di questo si tratta - dell'«Es», della fisionomia che è l'«Es». Questo «abicì» ci si trasforma quindi nella triade, spesso abusata, dagli psicoanalisti - lo, Es e Super Io -triade che noi andiamo a rintracciare non direttamente nei testi di Freud, ma uti26

lizzando un metodo ormai collaudato, attraverso altri testi, facendo «lavorare» altri testi. Altri testi che, come avete già visto, appartengono a uno scenario composito: c'è la scienza, c'è la letteratura, c'è la psicoanalisi, infatti i testi fondamentali sono tre, la Descent ofMan, l'Ulysses, e per la psicoanalisi quel volume delle opere complete di Boringhieri che contiene Al di là del principio di piacere e E/o e l'Es, cioè il medesimo volume su cui ci siamo soffermati l'anno scorso. Quindi, scienza, letteratura, psicoanalisi: questo è già, se volete, un programma di lavoro, contiene già un'indicazione metodologica, è una prima incarnazione, possiamo dire, della modalità di funzionare di questa triade, lo, Es e Super-Io. Possiamo riconoscere il legame della letteratura con l'Io, e dico «lo» perché certamente la letteratura - specialmente la letteratura contemporanea - ci appare più impigliata con l'Io che non con il soggetto; è molto più facile vedere dietro il romanzo, dietro la poesia che leggiamo, le fatiche, i sudori dello scrittore al suo tavolo piuttosto che ritrovare, che riconoscere quel travaglio, quell'elaborazione della lettera che, per esempio, abbiamo individuato nell'Origin di Darwin. Possiamo attribuire, d'altra parte, in un certo senso, il Super-Io alla scienza, la scienza che disdegna la letteratura, che disdegna tutto ciò che vi è di soggettivo, la scienza che è così prudentemente, pavidamente, fanaticamente aggrappata a quello che Lacan chiamava il «discorso universitario» da rifiutare addirittura qualsiasi possibilità di comprensione, anche, di ciò che sta facendo, cioè di ciò che va dicendo. Possiamo dire che allora alle spalle della scienza vediamo sorgere veramente quell'immenso Super-Io del pensiero contemporaneo a cui possiamo dare l'etichetta di «epistemologia», o «critica della conoscenza». Epistemologia e critica della conoscenza - per far due nomi Popper e Grinbaum - che sono gli spauracchi, possiamo dire, i grandi fascinatori, i grandi ipnotizzatori degli psicoanalisti, i quali si sentono totalmente, vera27

mente affascinati e intorpiditi dallo sguardo dell'epistemologo. Ecco, noi tentiamo allora di superare questo incantamento, questa fascinazione epistemologica «osando» un rimescolamento, osando fare quel passo che Freud chiama proprio con queste parole: mescolanza e combinazione. Ecco, noi facciamo delle mescolanze e combinazioni. lo, Es e Super-lo sono la terna che Freud ha introdotto una volta che le nette distinzioni, le paratie, gli scompartimenti, le separazioni che caratterizzavano la prima definizione, la prima descrizione dell'apparato psichico non rispondevano più, a che cosa?, a una situazione assolutamente caotica, al disgregarsi degli imperi, alla situazione della guerra, al riflettersi, nella clinica, di questi fenomeni, di questa «materia sporca» - possiamo dire. Nel momento in cui questa materia sporca non era più distribuibile nell'apparato psichico così come era stato descritto negli anni precedenti, Freud osa mescolanze e combinazioni. Noi lo seguiremo, osando anche noi mescolanze e combinazioni di letteratura, di scienza e di psicoanalisi: perché è facile frequentare la letteratura con - diciamo - gli interessi della psicoanalisi, o frequentare la scienza con gli interessi della psicoanalisi, è molto difficile farlo con tutte e due simultaneamente. Per quanto riguarda i precedenti teorici legati al lavoro del seminario e alla ricerca che stiamo facendo in questi anni, un po' di bibliografia «hanseatica». Quello da cui riparto, in un certo senso, il saggio che ho dedicato all'Origin of Species, di Darwin: Il posto dell'Origine nel riconoscimento della psicosi («Il piccolo Hans», 48, ottobre-dicembre 1985); Nel disegno del rebus: manipolazione del nome del padre e deposito di una «unità di misura» nelle teorie sessuali infantili («Il piccolo Hans», 50, aprile-giugno 1986); Il soggetto, le sue misurazioni e la psicosi («Alfabeta», 88, settembre 1986); Misurazione, calco e originale nell'analisi di un caso di psicosi infantile («Il piccolo 28

Hans», 53, primavera 1987). Di Virginia Pinzi Ghisi, La forma logica del luogo della fobia. Preliminare a una comprensione della schizofrenia («Il piccolo Hans», 53, primavera 1987); sempre di Virginia Pinzi Ghisi, Funzione dei residui in psicoanalisi - molto importante questo per il lavoro che faremo -; Il sapere protesi del corpo («Aut Aut», 177-178, maggio-agosto 1980); Didascalie per una clinica psicoanalitica. Chiarimenti sulla nozione di protesi («Il piccolo Hans», SO, aprile-giugno 1986). Potranno essere utili anche il lavoro mio su Darwin che feci nell'85 («Il piccolo Hans», 46), Una teoria audace: Darwin e l'Origine della psicoanalisi e Dal viaggio di uno psicoanalista intorno a Darwin. Dicevamo allora una «materia sporca»: è una materia sporca con cui Freud ha avuto a che fare e che è penetrata anche nella clinica. Abbiamo visto nel volume nono, è molto difficile riconoscere in un volume di Boringhieri un materiale così scottante, così inquinante, proprio perché - quello che dicevamo per la scienza vale anche per questo - quando ci sono le opere complete, quando ci sono queste belle scatole tutte uguali, nere, con una bella composizione formale, eccetera, quando poi dentro c'è il pensiero di un uomo che non per niente ha ricevuto il premio Goethe, riesce difficile ritrovare questa materia sporca. E però se si legge - come abbiamo cercato di fare noi - Freud, si possono riconoscere le novità con cui Freud si è trovato a che fare: inganno, crudeltà, nevrosi di guerra, buffoneria - vi ricordate?- fame, il caso della nevrosi demoniaca, fenomeni inquietanti, che hanno potuto far pensare alla dimensione del demoniaco, fenomeni che hanno portato Jung, per esempio, a preferire al determinismo della natura e del linguaggio la «libertà» del simbolo e dell'occulto, ma non Freud, che ha saputo dominarli, contenerli, che ha saputo rispondere a dei fenomeni nuovi, legati soprattutto alla guerra, anche fornendo degli stru29

menti di intelligenza, degli strumenti intellettuali nuovi (Al di là del principio di piacere, E/o e l'Es). Vi ricordate nel percorso che abbiamo compiuto l'anno scorso, a un certo punto ho fatto risaltare, ho fatto emergere, tre verbi di azione, tre verbi che si riferivano a delle azioni che ho chiamato «azioni del pensiero»: il gettare, il cedere il passo, il penetrare. Trovavamo specialmente diffuso in tutto il volume nono, nelle opere brevi e lunghe di questo tomo, l'azione del «gettare»: era gettare la sabbia negli occhi del Mago Sabbiolino, era il gettarsi dalla torre sempre di questo scritto Il perturbante, era il gettare le stoviglie in strada del ricordo d'infanzia di Goethe, era il gettare il rocchetto del nipotino di Freud in Al di là del principio di piacere, era il gettarsi, addirittura, dal ponte della ferrovia della giovane omosessuale in cura da Freud. Abbiamo anche sottolineato, individuato, l'importanza di un'altra azione, l'azione del «cedere il passo», che è specialmente evidenziata da Freud nello scritto sulla giovane omosessuale, dove appunto la giovane omosessuale cedeva tutti gli uomini alla madre, si ritirava rispetto alla madre. Ma Freud porta anche molti esempi di fratelli, in cui c'è un fratello che cede il passo a un altro fratello; di due gemelli uno addirittura si nega tutto perché un altro possa esplicare tutti i talenti possibili e immaginabili. Note, dettagli sottolineati da Freud, di grande interesse. «Penetrare». Avevamo fatto emergere questo verbo, questa azione del pensiero del «penetrare» nei meccanismi della gelosia, dell'omosessualità, della paranoia: la gelosia che penetra l'inconscio dell'altro, un cogliere ciò che funziona nell'inconscio dell'altro; l'omosessualità che penetra nella sfera della sublimazione, violando quella distinzione, quella separazione che Freud aveva mantenuto tra una dimensione artistica, culturale, intellettuale, depurata, e l'ambito invece delle pulsioni sessuali. E la paranoia che penetra nei sogni. 30

Questi scritti, che si collocano in un giro di anni cruciale, ricchi di grandi avvenimenti storici e politici, che si collocano cioè negli anni dal '14 al '22, questi scritti ruotano intorno alla guerra. I movimenti di questi pensieri accompagnano i movimenti della guerra: gettare bombe, arretrare, penetrare in territorio nemico. Oggi la guerra, la considerazione della guerra, ci dà un nuovo movimento, che è un movimento di ritorno. La figura che oggi ci interessa è la figura del reduce, in quanto incarna un movimento di ritorno. Vedremo, nelle prossime nostre riunioni, come questa figura del reduce che troviamo rappresentata da Ulisse, Ulisse che ritorna, sia la figura decisiva, fondamentale di questo nostro percorso, di questa nostra rappresentazione, in quanto che, come avevamo detto, avevamo messo in risalto che la protesi precede l'amputazione, la protesi è già là quando si manifesta, avviene una ferita, una mancanza nel corpo umano, la protesi attende, diciamo, il corpo mutilato, allo stesso modo possiamo dire che il reduce precede la guerra, è il reduce che rappresenta il soggetto in una vicenda di guerra e di nevrosi. Intorno a questo tema del reduce, del ritorno, tema del ritorno che è il tema dell'Ulisse e - vedremo - è il tema anche della Descent ofMan, vedremo come si configura la struttura dell'Es e seguiremo il passaggio dalla struttura dell'Inc, cioè dell'inconscio nel - chiamiamolo così - «vecchio» apparato psichico, su cui pure abbiamo tanto lavorato, l'apparato psichico caratterizzato da istanze separate, l'apparato psichico spaziale, l'apparato psichico esteso, che ha una direzione, vedremo come si passa da questo apparato psichico all'Es. Avevamo detto - per abbozzare subito questa grande coppia di concetti - che l'inconscio, così era definito da Freud, è funzione della separazione delle istanze psichiche: questa è la definizione più semplice, più icastica dell'inconscio-nell'apparato psichico. L'Es, invece, quello 31

a cui ci accostiamo, è funzione di queste che abbiamo chiamato mescolanze e combinazioni a cui Freud si è dedicato in questo periodo. L'articolazione dell'inconscio nell'apparato psichico metteva in rilievo l'istanza della separazione (Conscio, Preconscio, Inconscio), separazione delle istanze psichiche su cui abbiamo costruito la nostra teoria del luogo della fobia, delle barriere psichiche; l'Es, invece, è basato su altri capisaldi, su altri concetti, su altre leggi, che andremo individuando proprio come leggi, di cui per ora vi enuncio soltanto il nome: la gradazione e la reversione. Com'è il soggetto dell'Inc e com'è il soggetto dell'Es? Useremo spesso questa forma un po' catechistica di esposizione, forma catechistica che echeggia, oltre al catechismo anche il linguaggio didascalico della scienza e che è stata felicemente adottata in alcuni capitoli dell'Ulisse anche da Joyce. Il soggetto dell'Inc è il soggetto secondo Lacan, il soggetto cioè che parla, il soggetto caratterizzato dal linguaggio, il soggetto caratterizzato dai significanti - «ça parle» -. Il soggetto dell'Es, invece,- buttiamolo lì, poi ci torneremo, vedremo cosa questo significa- è un soggetto «naturale». Schematizzando, diciamo che la parola, il «ça parle», è spostata in periferia, il soggetto è in un luogo silenzioso, e la parola viene data alle cose. Il programma di Joyce, il programma artistico, il programma morale di Joyce, nel momento in cui iniziava la stesura dell'Ulisse, era, lo sapete bene, il silenzio, l'esilio, l'astuzia. Abbiamo parlato di soggetto naturale, e infatti, riprenderemo quest'anno, come vi ho accennato all'inizio, il filo dei seminari naturalistici degli anni scorsi: il seminario su Hermann, il seminario su Darwin. I seminari naturalistici degli anni scorsi ci avevano condotto a valorizzare una dimensione inesistente, in un certo senso, in campo psicoanalitico- o censurata, o repressa-: la dimensione dell'agire, dell'azione. Avevamo parlato di un pensiero 32

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