cati, lo spazio dell'apertura, della imprevedibilità (del transitorio, del fuggitivo, del contingente e del conflittuale già di Baudelaire); della sorpresa e della innovazione, della pluralità e dello spaesamento. Nella maggioranza delle censure rivolte al monologo interiore, sotto la superficie delle rampogne specifiche, è in realtà attivo il rimpianto verso il mondo dell'appaesamento e della Comunità Organica, verso la Gemeinschaft preindustriale, verso la Geborgenheit del mondo della domesticità e della familiarità (per dirla con i topoi della filosofia e sociologia tedesca)25 • Le critiche sono soprattutto sintomi di una resistenza verso nuovi orizzonti, che per essere appunto senza tradizione, non possono non profilarsi anche come inquietanti, rischiosi, sperimentali. In quanto inusitato, il monologo - come la città piena di shock e di collisioni nella famosa definizione di Benjamin - non può non indurre vertigine, spaesamento, insicurezza. In quanto avviato verso uno sfondamento conoscitivo, il monologo non può essere armonico, tranquillizzante, senza fratture. In questi ultimi anni un'apertura e un apprezzamento verso la modernità del monologo interiore di Joyce è venuta implicitamente dall'applicazione della categoria della dialogicità di Bachtin. Essa ha alle spalle, come tutti sanno, la rivendicazione di un Dostoevskij che distrugge le forme costituite del romanzo europeo (la tradizione «monologica»: noi diremmo il romanzo «ben fatto») per sostituirgli il romanzo «polifonico», caratterizzato dalla fusione di elementi «trasgredienti», totalmente eterogenei e incompatibili, insomma una drammatica pluralità di mondi e molteplicità di punti di vista, fatta vivere simultaneamente in tutta l'orchestrazione contrappuntistica delle sue ineliminabili contraddizioni, interazioni, coesistenze, opposizioni, spesso (e qui cito Bachtin) «con la rapidità catastrofica dell'azione, il suo "movimento turbinoso", il suo dinamismo»26 • 70
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