Il piccolo Hans - anno XVI - n. 64 - inverno 1989-1990

spiazzata. Investita dalla tecnica del montaggio spaziale e dalla sua necessaria frammentazione, la critica ha subito parlato di un Joyce teso come non mai a denunciare l'alienazione metropolitana e - non avvertendo che l'esperimento joyciano era limitato alla durata di circa un'ora - ha letto negli accadimenti necessariamente incompleti (dato il ristretto spazio di tempo) i sintomi di una generale frustrazione e di un onnipresente artificio. Ricuperando il primo Joyce (il Joyce dei Dubliners), questa critica ha veduto la città come una terra eliotianamente desolata, come paralisi e luogo di alienazione, anzi di ostilità e di Schadenfreude. Il risultato, molto discutibile, è stato quello di avvicinare anche il Joyce sperimentale ai nostalgici della Comunità Organica (e penso qui a F.R. Leavis, notorio fustigatore di culture metropolitane, non senza seguito di consenso da parte di mediatori più sofisticati, come Raymond Williams). Così di fatto si è avuto l'implausibile accostamento di Joyce allo Yeats pastorale cantore di Sligo o all'idillico e arcadico Synge. Già Harry Levin indicava come il tema joyciano per eccellenza fosse lo straniamento dell'artista dalla città, avviando una demonizzazione dello spazio urbano che avrebbe fatto fortuna: legittimata, sullo sfondo, dalla nota formula eliotiana della storia contemporanea (di cui Ulisse era emblema) come «immenso panorama di futilità e anarchia». Da qui il catastrofismo delle interpretazioni di Wandering Rocks che rilevavano il negativo metropolitano del capitolo: disorientamento, caos, oppressione, meccanicità, precarietà, inaffidabilità ecc.: tutte accuse che, per quella omologia cui abbiamo più volte accennato, sono riscontrabili nei giudizi dati a proposito del monologo interiore. Ciò che va ribadito è in realtà che la città coincide con la crisi della rappresentazione, e che Joyce è impegnato al 68

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