Il piccolo Hans - anno XVI - n. 64 - inverno 1989-1990

le tende gestualmente la mano. Anziché rabbrividire e ritirarsi, si diceva: già perché gli esegeti, o meglio i ripetitori dell'hotel dell'abisso, hanno anacronisticamente proiettato sulla realtà industriale dei primi del Novecento - insomma sugli anni dell'avanguardia storica - gli sviluppi tecnologici del tardo capitalismo: così che per loro la realtà, quella che aggredirebbe e travolgerebbe inesorabilmente la soggettività, è assunta dogmaticamente quale lutto, orrore e infamia. Sicché il monologo che l'accoglierebbe e la mimerebbe, nei modi mistificanti dell'immediatezza, sarebbe di fatto apologia e consacrazione dell'esistente repressivo. Lasciati gli esegeti del disfacimento della coscienza borghese a perseguire più o meno dialetticamente un sapere Assoluto, passiamo alla critica anglosassone, dove se né Hegel, né Husserl o Horkheimer si affacciano nelle loro pagine a sollecitare un Logos o un Sistema, vige non di meno una diffusa nostalgia per la Coerenza e per l'Organicità, che detta pagine non meno severe, anche se meno filosoficamente raffinate, su Ulisse e sul monologo interiore. Per quell'equazione che abbiamo fatto tra monologo interiore e città, in quanto luogo del tumultuoso, del fluido e del molteplice, possiamo sorprendere più agevolmente nelle resistenze e nelle critiche rivolte alla metropoli la causa più vera e scoperta delle remore che hanno presieduto alla critica verso il monologo, dall'assenso timido e perplesso al rifiuto tout court. Il luogo privilegiato di tale verifica è ovviamente il capitolo delle «Simplegadi» (Wandering Rocks): posto da Joyce non a caso anche strutturalmente al centro del romanzo, proprio per sottolineare la centralità dell'esperienza urbana moderna, l'episodio ha da subito sconcertato la critica che, non avvertendo che la radicalità delI'Erlebnis metropolitano non sopportava consolanti rinvii omerici (come è noto l'episodio non ha riscontro nell'Odissea), si è trovata senza orientamenti e del tutto 67

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