Il piccolo Hans - anno XVI - n. 64 - inverno 1989-1990

senza stessa della modernità e del modernismo tout court. Si sono riversate parecchie prediche sul monologo interiore. Ricordo qui le accuse molte volte ripetute, focalizzate in particolare sulla tecnica dello stream, che Ulisse sia un esempio infelice del metodo scientifico, di degenerazione estrema del romanzo naturalistico, ecc. Sono condanne che si riscontrano in molte delle critiche coeve a Joyce dove - nei casi più intelligenti - esse valgono soprattutto come difesa ed esorcismo nei confronti di un'opera inafferrabile, profondamente spaesante, che si faceva intollerabile beffa dei familiari orizzonti di attesa. Ma le censure poi sono continuate, significativamente quando il rigetto delle avanguardie toccava il culmine nella cultura europea. Gli ostracismi degli anni '30, privi delle grossolanità di un Radek o delle ingenuità di un Mirskij21 , riprendono spessore negli anni del realismo critico, in Lukacs e in certa sociologia militante, dal facile determinismo, degli anrii '60 e '70: per esempio in Jiirgen Schramke che, nella sua Teoria del romanzo contemporaneo22 , legge il monologo quale rifugio nell'interiorità da parte di un io straniato dal mondo: mentre la coscienza diventa ipertrofica, essa perderebbe la presa sulla realtà; conquistata l'egemonia sulla oggettività, essa degenererebbe a «semplice trastullo delle sue impressioni», mostrando in tal modo la sua totale irrilevanza. Da qui, miscelando e volgarizzando Benjamin, Adorno e l'Heidegger di Sein und Zeit (le pagine sulla deiezione, sul si anonimo e impersonale d�ll'inautenticità ecc.), il rimprovero rivolto al monologo di scadere nella regressione dell'autocoscienza e di farsi passiva, astratta e unicamente ricettiva del flusso senza senso di una infinita datità. Insomma l'arte (e qui diciamo il monologo interiore) anziché rabbrividire e ritrarsi dal contatto con la realtà, . 66

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