Il piccolo Hans - anno XVI - n. 64 - inverno 1989-1990

teriorità che monologa in Dujardin è ben lungi dal mettere in crisi l'identità di un «io» che rimane razionalistico e cartesiano, saldo e coerente fino alla fine del racconto, senza lacerazioni o rotture. Sembra allora plausibile l'ipotesi che oltre il riconoscimento di un debito giovanile (ma non più che uno spunto), troppo eccentricamente insistito per non destare qualche sospetto, Joyce insistesse sull'esempio Dujardin per stornare comparazioni con sollecitazioni certamente più pertinenti, come le suggestioni che provenivano dalle indagini della psicologia del profondo, da Freud a Jung, giustamente esplorate dalla critica simbolica, e non importa qui se più per sondaggi che spesso non hanno garantito plausibili ritorni. Né si dimentichi che. il giudizio strettamente privato di Joyce sull'opera di Dujardin, come riporta Ellmann, era meno lusinghiero di quello così ripetutamente pronunciato in pubblico6 • Sia chiaro: non intendo sottovalutare affatto altre componenti di quella cultura simbolista che, ignorate, era doveroso richiamare, come fece già brillantemente tanti anni fa, nel '32, Edmund Wilson nel suo Axel's Castle: penso per esempio, tra le varie componenti, a quella che promuoveva lo stesso giovanissimo Dujardin in quanto fondatore della «Revue Wagnérienne»: l'aspirazione del linguaggio a farsi musica, e alla proposta più generale di una necessaria solidarietà tra tutte le arti. Ma, ancora una volta, l'ideale wagneriano del Gesamtkunstwerk della fine secolo è tutt'altra cosa quando esso è appunto aggiornato e praticato dalle avanguardie novecentesche (non a caso Joyce sottopose Wagner, che considerava iperromantico e decadente, a pesanti ironie e a plateali dissacrazioni7). Così, per fare un solo esempio, la pur calamitante innovazione verbo-visiva del mallarmeano Un coup de dés è solo un incunabolo decorativo a confronto con l'eversione radicale tipografica messa in opera dalle parole in libertà marinettiane. 56

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