Il piccolo Hans - anno XVI - n. 64 - inverno 1989-1990

Criticism e dei suoi tardi ripetitori, hanno scoperto l'onnipresenza dell'esperienza romantica, proclamando il modernismo una pura invenzione della critica (e penso qui alla posizione estrema di Harold Bloom). Intendo articolare il mio discorso in tre tempi: nel primo delineo un breve necessario excursus sulla ricezione critica del monologo interiore, da cui emerge il quadro di una interpretazione simbolista e tardo-simbolista della sua tecnica, interpretazione avviata con più o meno ironica disinvoltura da Joyce stesso; in un secondo momento richiamo come più direttamente incidenti e cogenti le sollecitazioni e le tangenze della teoria e della pratica futurista della pittura degli «stati d'animo», nonché gli stimoli provenienti dai manifesti tecnici della letteratura futurista, con tutto quello che era implicito nel fenomeno coevo di più vasta portata in cui queste sollecitazioni si inseriscono, vale a dire la rivoluzione delle categorie di spazio e di tempo; in fine cercherò di indicare nel livello più interessante, cioè quello critico-interpretativo, come questa ricollocazione nell'ambito del modernismo storico ci metta in guardia dal sottoscrivere ancora certe interpretazioni pastoral-crepuscolari di una esegesi che, nonostante la frequentazione di testi novecenteschi, non cessa di affacciarsi con malcelate totalizzanti nostalgie preindustriali pur dialetticamente articolate. 1. Joyce, Dujardin e la tradizione simbolista Come è notissimo, fu Joyce stesso a indicare come modello del monologo interiore - cioè modello di una delle sue sperimentazioni più vistose - il breve romanzo di Edouard Dujardin, Les Lauriers sont coupés, pubblicato nel 1887. Joyce lo rivelò nel '21 a Larbaud, che si accingeva a preparare gli appunti per la presentazione parigina di Ulisse, precisando che nel romanzo di Dujardin: 53

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