tenzialità eversive senza precedenti e può aprire - come l'edizione di Gabler ha mostrato - anni di intensa e appassionata discussione. L'umore che ha determinato di volta in volta il bisogno di discutere non è stato sempre limpido: in molti casi, il dispetto provocato da un'edizione certamente difficile ma la cui lettura, seppure ardua, non dovrebbe scoraggiare studiosi intenti ed esperti, in altri il fastidio di doversi acclimatare con un testo in molti luoghi diverso da quello a lungo letto, chiosato ed amato, ma più spesso il desiderio di cogliere in fallo il curatore, hanno sostanziato e continuano a sostanziare il dossier già cospicuo degli interventi non meno della riflessione critica disinteressata. E il nuovo Ulysses ha assunto così i connotati dello scandalo. Tuttavia, e indipendentemente da ciò che si può dire e che è stato detto pro o contro l'edizione critica di Gabler, è innegabile che il suo effetto più immediatamente positivo è stato quello di determinare, nel lettore joyciano professionista, un bisogno del tutto nuovo di consapevolezza testuale; e di produrre inattese quanto apprezzabili competenze filologiche che hanno reso ormai improponibile la vecchia abitudine quasi feticistica della reificazione della pagina «così come è». Tanto che un filologo geniale come Jerome McGann può dire del nuovo Ulysses (per la verità attribuendo a Gabler intenzioni che non traspaiono dalla sua edizione) che esso è basato su una visione tutta postmoderna di «instabilità» del testo; e osservare che questa sensazione di instabilità apre possibilità del tutto nuove («A number of different Ulysses begin to occupy the space of critica! possibility») e che l'esperienza di lettura del «testo genetico» proposto da Gabler3 «should remove forever that illusion of fixity and permanence we normally take from literary works because they so often come to us wearing their masks of permanence»4 • Le osservazioni, certamente suggestive, di McGann 118
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