Il piccolo Hans - anno XVI - n. 64 - inverno 1989-1990

merato a geometria variabile: la sola figura approssimativa che gli conviene è quella della sfera, o meglio la compenetrazione continua di una pluralità di sfere, che finiscono per collocare il centro in ogni punto. La messa a fuoco di un lacerto di FW-dunque, la scelta dell'oggetto parziale - implica nell'operatore l'obbligo, probabilmente fastidioso ma corretto, di dichiarare il modo di lettura del testo joyciano -di ciò che crede la possibile lettura. La questione avanzata da Jacques Derrida4 «Qui a le droit reconnu de parler de Joyce, d'écrire sur Joyce? En quoi consiste ici la compétence, et la performance?» può aiutare, completandosi magari con la rassicurazione di Harry Levin5 : «Per gustare La veglia di Finnegan, non occorre insistervi sopra, il requisito primo non è l'onniscienza...»-che non è per niente una rassicurazione, ma implica piuttosto un accollo preciso di responsabilità personale. Lo sciame si disperde, o si agglomera, secondo movimenti di danza regolati da un insieme di leggi molto ricco, proprio perché soggetto a variazioni anche per effetto di quei movimenti. Val quanto dire che il meccanismo di FW (e della sua lettura) è un meccanismo che si autoregolamenta. La stessa trouvaille centrale della scrittura, il mot-valise, la condensazione dei significati e dei linguaggi, è una chiave eccellente solo se la si adopera e la si butta via. In un vecchio saggio, che oggi risulta duramente datato (per forza), Clive Hart6 ha provato a condurre fino in fondo l'uso della chiave, senza buttarla mai, o almeno aspettando che fosse la chiave stessa a non lavorare più. Ma nella rincorsa dei «sistemi linguistici» che una parola o una frase di FW può chiamare in causa, si procede ancora dirò così linearmente: bisogna trovare pure un punto d'arresto, però il punto d'arresto slitta sempre via, non come un arricchimento plurale dei sensi, ma come un'insoddisfazione dei sensi. 101

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