perché può vivere fuori dalla storia e può risolvere le cose a modo suo. Ma c'è anche un poeta, dottissimo, che risolve le cose a modo suo. L'unico scrittore neogreco che non ha letto (non gli poteva interessare, mi figuro) il Romanzo d'Alessandro - ma «ad Alessandria, la città che gli stava nel sangue e che divenne per lui un sentimento, egli era una sorta di numen loci»26 • Diceva di se stesso: «io sono un poeta storico». Mi riferisco naturalmente a Kavafis. Non tenterò, neppure per cenni, di descrivere la vicenda formale di questa poesia che, proprio laddove sembra più canonica, precipita verso le falde subliminali e translinguistiche dell'icona e dell'anagramma. Né parlerò della vicenda biografica. Biografica, ho detto, perché abbiamo a che fare con un poeta dotato di altissima preoccupazione formale, che esercita strenui controlli non solo sugli aspetti materiali e editoriali della scrittura, ma persino sui fili precari dell'esistenza quotidiana27 , sicché, a un certo punto, non si riesce a resistere alla tentazione di leggere la sua vita come un testo poetico (che cosa di più naturale, di più assurdo, che morire nel giorno del proprio compleanno?). Mi limiterò dunque a riferire, con una scelta antologica alquanto approssimativa, sul tema che c'interessa in questa sede. L'identità del narratore di Kavafis (il suo qui, il suo ora) comporta sempre un disorientamento delle nostre coordinate spaziotemporali. L'epicentro della geografia kavafiana è quello della koiné ellenistica, coincidente a un dipresso con ciò che noi chiamiamo Medio Oriente (Alessandria, Sidone, Berito). A Nord si risale verso la Grecia propriamente detta, e poi più su, fino a Costantinopoli. A Sud ci si arresta alla fascia desertica dell'Egitto e della Libia, eventualmente all'Arabia. A Oriente il confine si perde, oltre la Cappadocia, la Commagene, l'Osroene, oltre la Battriana, verso l'India. A Occidente ingloba quella che noi chiamiamo Italia meridionale e che per Kavafis è 80
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