Il piccolo Hans - anno XVI - n. 62 - estate 1989

Il piccolo Hans r.ivista di analisi. materialistica 62 estate 1989 Giuliano Gramigna 7 "Divan"/divano. Goethe, l'Oriente e i contemporanei Ennanno Krumm 26 Una rivoluzione della poesia lirica e la sua esca Massimo Peri 63 Nello stremo d'Europa Roberto Fertonani 93 Goethe e l'Oriente Antonio Prete 110 Baudelaire, l'invito al viaggio Paola Colaiacomo 123 Giovinezza Andrea Zanzatto 151 Poesia e televisione Stefano Agosti 163 Introduzione al Fauno Antonio Porta 178 Poesia araba: una doppia rimozione Ennanno Krumm 185 Sweet fire e piccole Star. Una poesia in sei parti NOTES MAGICO Romolo Rossi 192 Il problema generale delle dipendenze e il concetto di depressione anaclitica Romolo Rossi 202 Il progetto euforico Giorgio Orelli 215 Correzioni leopardiane

153 LAV B 9999 -0006-05 PICC HANS STAFF D2-1 REV:29-05 TRM:21-11 GL ALT: 73,4 Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Contardo Calligaris, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola. a questo numero hanno collaborato: Stefano Agosti, Paola Colaiacomo, Roberto Fertonani, Giuliano Gramigna, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Ermanno Krumm, Giorgio Orelli, Massimo Peri, Antonio Porta, Antonio Prete, Romolo Rossi, Mario Spinella, Italo Viola, Andrea Zanzotto. redazione: Via Nino Bixio 30, 20129 Milano, tel. (02) 2043941 abbonamento annuo 1988 (4 fascicoli): lire 35.000, estero lire 52.500 e.e. postale 33235201 o assegno bancario intestato a Media Presse, Via Nino Bixio 30, 20129 Milano Registrazione: n. 170 del 6:3-87 del Tribunale di Milano Coordinamento editoriale: Rodolfo Montuoro Fotocomposizione: News, via Nino Bixio 6, Milano Stampa: Tipolitografia Meina, Carugate (Milano)

Il discorso poetico è un tappeto intessuto di moltepltci trame, che si distinguono soltanto per la tinta della realizzazione, per la partitura dei comandi, sempre mutevole, trasmessi dalla rete segnaletica dei mezzi. È un resistentissimo tappeto liquido, nel quale le correnti del Gange, come tema tessile, e i campioni prelevati dal Nilo e dall'Eufrate, non si mescolano, ma conservano ciascuno la propria tinta, fissati in arabeschi, fregi, motivi, tutto fuorché un disegno: un disegno sarebbe già una parafrasi. Il valore del motivo ornamentale consiste proprio nel fatto che questo pezzo di natura recitato serba le tracce della propria origine: del regno animale o vegetale, egiziano, scita o delle steppe di qualunque specie sia... Mandel'stam

"Divan"/ divano Goethe, l'Oriente e i contemporanei Aus wie viele Elementen soll ein echtes Lied sich niihren... Quanti saranno gli elementi che han da nutrire un canto schietto... J.W. Goethe, West-ostlicher Divan Proprio sulla soglia del West-ostlicher Divan, nei primi versi della poesia «Hegire», s'incontra una chiave per leggere non solo il progetto del libro ma più in generale il rapporto fra i due aggettivi del titolo: Nord und West und Sud zersplittem, Throne bersten, Reiche zittem «Vanno in pezzi il Nord, il Sud e l'Ovest, I troni, imperi tremano, s'infrangono...» ma: fliichte du, im reinen Osten «tu rifugiati nel puro Oriente...» (cito qui, come più avanti, dalla traduzione di Filiberto Borio, Boringhieri, 1959). «Fliichte», verbo forte in posizione forte, introduce la presa di distanza, anzi l'allontanamento da qualche cosa- e il dato della distanza è destinato a rivelarsi centrale a tutto il discorso che questa nota si propone di articolare. Ma è «zersplittem», andare in pezzi, in frantumi, più ancora dei due verbi concomitanti «bersten» e «zittem» a 7

farsi punto focale, non certo solo per il suo riferimento concreto alle convulsioni della «novella storia» che avevano appena vissuto, vivevano Goethe e i suoi lettori (il Divan, si sa, fu scritto praticamente in due estati, del 1814 e del 1815, per essere pubblicato nel 1819; ed «Hegire», porta d'ingresso del libro, cronologicamente cade nel 24 dicembre del 1814). Tale verbo definisce uno dei termini di una situazione poetica, la cui portata va ben al di là del Divan stesso, costituendolo in una specie di modello. Verso dove ci s. i rifugia dal «mondo che va in frantumi»? E attraverso quale procedura, che sia nello stesso tempo un fine? Nei diari di Goethe il primo accenno al Divano del poeta persiano Hafis, nella traduzione di von Hammer, è del 7 giugno 1814 e se ne origina lo stimolo a «mettermi in relazione con lui (Hafis) per mezzo della mia propria produzione», come segnala ancora Goethe nelle Note e dissertazioni. «Fhichten», in senso più pregnante, è anche questo «mettersi in relazione», stabilire una distanza ma anche colmarla. Distanza, Ferne, ricorre in «Selige Sehnsucht», a conclusione del primo libro del Divan («keine Ferne macht dich schwierig») e ritorna nelle Note, là dove si getta uno sguardo d'insieme alla «settemplice costellazione» dei · poeti persiani. Sguardo d'insieme, ossia principio d'unità, in contrapposizione al mondo che va in frantumi. L'atto di identificazione del presente al passato, che supporta e giustifica il Divan, si appoggia da un lato alla figura cardinale della distanza, dall'altro alla correlazione fra lo «zersplittern» e il rifugio nell'unità, nello sguar- · do leggero e globale, nell'armonia degli elem<:!nti. Secondo una nota, «la poesia persiana... è compresa in un'eterna sistole e diastole... Sempre in essa si va allo sconfinato e di nuovo si torna al determinato...». Lo figura direttamente un testo del Divan, nella dialettica dell'«atmen», del respirare («nel prender fiato sono due grazie:/ introdur l'aria, scaricarsene; I quello costrin8

ge, questo riconforta; I così mirabilmente è intrecciata la vita») - vera e propria autorappresentazione dei ritmi della poesia goethiana in questo libro. «Lo sguardo ampiamente disteso su tutti gli oggetti del mondo» si contrae nel fuoco di questo o quell'oggeuo, con nitidezza assoluta; per poi riallargarsi alla «vita del tutto» (difatti s'intitola «All leben» il testo che in certo modo esemplifica tale movimento). È così che opera l'«orientalisieren», il «dobbiamo orientalizzarci» di cui parla Goethe? Un modello è indicato, Jean Paul Richter: «Uno spirito siffattamente dotato volge al suo mondo, nel modo più autenticamente orientale, uno sguardo vivace e coraggioso, crea le più strane relazioni, associa l'incompatibile, non senza intrecciarvi però un segreto filo etico, che riconduce il tutto a una certa unità». Una quartina di Goethe dà una chiusura direi epistemologica all'intero progetto: Chi vuol comprendere il poeta deve andare nella terra del poeta; egli in oriente si rallegri perché l'antico è ancora il nuovo. Ci sono dei punti di riferimento in quella «campagna d'Alessandro», come la chiama E.R. Curtius, con cui Goethe allargava il proprio dominio annettendosi la poesia orientale - in questo senso strategici, direi. Il più importante, per la struttura fantasmatica come per quella verbale, è la distanza. Vi si alloga anche lo scarto abbastanza convenzionale, cui ho appena accennato, fra das Alte e das Neue; ed è distanza anche quel «fare la spola» fra Oriente e Occidente, che introducono alcuni versi delle «Postume» destinati al «Libro del cantore». Lo scorcio del Settecento e tutto l'Ottocento, almeno fino a Baudelaire e al Parnasse, entreranno nel fascino 9

dell'Oriente, dell'«orientalizzazione». La nozione di distanza aiuta abbastanza a rilevare la peculiarità dell'esperienza di Goethe in proposito-in una parola: il Divan - e ciò che è venuto accumulandosi dopo (anche .nel frattempo) nelle letterature occidentali per effetto di tale tentazione. Potrebbe bastare per il paragone, alla scadenza di un decennio (1829), Les Orientales: da «La captive» ai «Djinns». Qualcosa di decisivo è passato fra Suleika e Sara la baigneuse. «Si on lui demandai ce qu'il a voulu faire ici, il dira que c'est la mosquée». Se per Hugo (ma Hugo qui vale quanto nome di riferimento) l'Oriente è una distanza, si tratta, a ben guardare, di una distanza da immaginario - immaginario da trovarobato. La distanza su cui lavora Goethe la si potrebbe definire simbolica. È una distanza da va e vieni di rocchetto: allontanamento da ciò che si frantuma, verso l'unità, e immediatamente movimento contrario, di ritorno, che solo può renderla raffigurabile rimettendola nel fondo del binocolo. La qualità quotidiana, familiare di ciò che compare nel Divan, perfino dell'armamentario deliziosamente coloristico di coppe, cammelli, oasi, huri, sta nel continuare a preservare il seme, anche minimo ma insopprimibile, della distanza - come accade per le figure della vita diurna riapparse in sogno. «Patriarchenluft zu kosten!», assaporare l'aria dei Patriarchi, non è appena un bel verso ma il modo più conciso per indicare il lavoro di Goethe nel Divan, lo scambio respiratorio fra nuovo e antico, oggetto e simbolo. Per quanto ne sappia, una sola volta Freud convoca sulla sua pagina il Divan, precisamente in una ampia citazione dell'Introduzione alla psicoanalisi (XXVI lezione), per illustrare il meccanismo fra narcisismo, egoismo, relazione d'oggetto e innamoramento: «esposizione poetica» di un «contrasto economico». Conoscendo il posto 10

centrale che nella cultura e nelle predilezioni di Freud occupa l'opera di Goethe, questa pezza d'appoggio è insieme normale e rilevante. Il richiamo alla citazione fatta da Freud non è gratuito. Dal dialogato fra Suleika e Hatem, emerge almeno questo verso, per l'uso che se ne può fare qui: «Bin Ich mir ein wertes Ich», letteralmente: Sono per me un Io preziosofrase che prende meglio il suo valore se ci si rifà a quanto dice Suleika, poco più su: «Che tutto perdere può un uomo I purché rimanga quel che è». Il possesso del nucleo unitario del Sé si presenta come il bene supremo- anche se l'amore risolva a suo modo la questione. Ma tale integrità viene spontaneo connetterla con il polo antitetico individuato all'inizio: lo zersplittern, il disperdersi in frantumi. Il doppio movimento della distanza e quanto si carica e scarica lungo il filo unità/frantumazione, aiutano a fare un altro passo verso la risposta alla domanda: perché scegliere proprio il West-ostlicher Divan come punto di partenza di un discorso sulle relazioni fra Oriente e Occidente per quanto riguarda la poesia, soprattutto contemporanea- discorso che dovrebbe introdurre il tema di questo numero del «Piccolo Hans»? Nella scelta di un punto di partenza, per quanto arbitraria sembri, si annida sempre una forza libidica che la rende in qualche modo necessaria. Il Divan veniva a proposito, intanto, per il rifiuto di tutta la parte scenografica dell'esotismo «orientale» che prenderà piede dopo di esso per quasi un secolo, di cui «A une malabaraise» di Baudelaire darà un capovolgimento amaro e ironico; e d'altro canto esso è la versione poeticamente più alta di quel rapporto in vario senso amoroso che può fare scrivere a Goethe: «Se tu dalla tua amata sei lontano/come l'Oriente dall'Occidente». Ma è essenzialmente l'atto di lasciarsi dietro il «mondo che va in frantumi», a qualificare le ragioni della scelta, 11

direi per antifrasi. La poesia del Divan è ancora per eccellenza un ·enkomion, celebrazione di una felicità potenziale, diffusa dappertutto: come dice pressappoco Curtius, il poeta sperpera in godimento il dono che gli è stato concesso, per produrre a sua volta godimento. Mentre si potrebbe facilmente assegnare a ùna buona parte della poesia contemporanea il segno opposto della frantumazione: il processo in cui si attua sarà di disperdere le proprie membra, e averne coscienza, piuttosto che di contemplare con giubilo il proprio «wertes Ich» in unità. S'intende che ogni generalizzazione si uccide un istante dopo essersi legittimamente presentata. È giusto riconoscere che nel privilegiare il punto di partenza ha operato la suggestione di quel nome che sta in capo al libro stesso: Divan. Nomi trapungono gli spazi mentali come contatti, «facilitazioni», imbocchi, indicazioni di sentieri o ponti per andare oltre. Appunto, uno di questi nomi è Briicke. Un altro è Divan, Divano, che dimette presto il senso, più confacente all'occasione, di quaderno, raccolta di poesie liriche secondo l'uso letterario arabo, per arricchirsi di una serie di armoniche semantiche, fino a saltare in campi diversi. Funzione di regesto, di trasmissione di una esperienza poetica - ma anche luogo dove tale esperienza e tale trasmissione si producono. Il lettore contemporaneo, con un minimo di fantasia analogica, non può fare a meno di associare con i significati che «divano» ha assunto nella pratica psicoanalitica, addirittura nelle prescrizioni inaugurate da Freud: dunque nel senso più ampio di una tecnica. Il diwan arabo, raccolta di testi, e il lettuccio per l'analizzante hanno almeno questo in comune: sono oggetti (strumenti?) che localizzano un discorso. Il discorso esi12

ste al di fuori di questo luogo, ma noi facciamo fatica a separarlo da esso. A entrambi inerisce una traccia storica, come osserva Freud per il divano psicoanalitico-la traccia di una seduzione (quale era in fondo il trattamento ipnotico). «Ritualizzazione», ribadisce in un suo libro Jacques Durandeau: uno strumento, un processo, un pezzo di mobilio per rendere relativamente meno impossibile il passaggio della parola, che sia analitica o poetica poco importa. D'altra parte il divano è pure un divano di Procuste, se i rimandi mitologici hanno qualche valore. Anche un testo scritto, una raccolta di testi ha qualcosa a che fare con Procuste, implicando una serie di slogamenti e mutilazioni che sono il pedaggio inevitabile perché la parola possa finalmente circolare (era pressappoco quel che pensava Valéry parlando di ogni poema come di una sezione storica del testo possibile). Il titolo che leggo in frontespizio al libro di Goethe diventa quasi naturalmente uno shifter, che induce anche questa serie di spostamenti, per quanto sembrino arbitrari; in mancanza di meglio conviene attenercisi, fidando nella loro funzione orientatrice. Dopotutto, è lo slittare del termine stesso di «divano» dal campo metonimico a quello metaforico, di cui prendiamo coscienza continuamente, a rendere meno improbabile lo sfruttamento proposto. Il nome diventa una camera sonora in cui ascoltare gli echi del rapporto Oriente-Occidente per la poesia contemporanea. Goethe, il West-6stlicher Divan, le metamorfosi di un nome, costituiscono la catena associativa per arrivare a un certo approccio. Così «divano» è termine medio che fa scorrere alcune delle figure psichiche e verbali già avanzate: frantumazione I unità/ distanza/ continuo I discreto I profondità/ leggerezza: tutte saggiate alla prova di quella coppia che 13

si presenta proprio in capo al West-ostlicher Divan. Quanti Orienti... Persiano, indiano, cinese, giapponese, onirico, biblico - quello di Voltaire, di Beckford, di Coleridge, del dottor Mardrus, e ancora. Una fascinazione percorre l'Ottocento e arriva a Baudelaire che, come ho detto, la ha in certo modo «absolument chàtrée». Difatti, qualcosa la castrazione deve avere a che fare con questo «desiderio d'Oriente», la sua magnificà'zione e falsificazione sfrenate, l'eccesso scenografico, il bazar dei travestimenti, l'opéra (magari sublime: Il flauto magico), la riduzione popolare in vignetta e, parallelamente, la sua rimozione, il vuoto lasciato come vuoto di un'orma. Un superamento dell'Oriente, d'ogni Oriente, per avvertire la svolta della poesia, lo somministra proprio Mallarmé, scrittore del tutto refrattario a qualsiasi esotismo o colorismo. Basti confrontare due testi, «Las de l'amer repos» (1864) e il sonetto dedicato a Vasco de Gama, «Au seul souci de voyager» (1898). «Las de l'amer repos» fissa la condizione vorrei dire metapsichica di ogni ancor possibile adempimento di «chinoiseries» (è il caso di dirlo!) nell'imitazione dell'atto pittorico del «Chinois au coeur limpide et fin»: sulla superficie di neve della tazza (tazza o vaso, vorrei mostrare un poco più avanti che non intervengono solo come aggeggi secondari nel dispiegarsi del rapporto «poetico» Occidente/Oriente) s'inscrivono una sottile linea azzurra, tre cigli smeraldini... già ben altro che mimetismi parnassiani - geroglifico, ideogramma che annuncia la félure, del resto preavvertita dai «trous vides». L'Oriente di «Au seul souci de voyager» s'impernia, anziché a un atto, a un significante, Inde, la cui seduzione è legata alla brevità stessa del segno grafico-fonico: quattro lettere, una sillaba, e dunque a una funzione contemporaneamente di evocazione potente e di cancellazione, tipica 14

di Mallarmé. (Non sembra esente da un certo valore simbolico anticipatorio, che il quaderno autografo «Entre quatre murs» [1859-60] presenti, in corrispondenza con la voce d'indice «Inde», un vuoto; e vi si contenga poi il testo orientaleggiante «La colère d'Allah!».) Inde è peraltro corredato da due determinativi, «splendide» e «trouble», il secondo dei quali, oltretutto squisitamente mallarmeano, ha funzione preminente, non solo per la posizione in fine di verso. Se si perlustra il dizionario Littré, incentivo primario delle invenzioni di Mallarmé, si trovano alla voce «trouble» due definizioni che sembrano convenire particolarmente al testo di «Au seul souci» -e che attengono, non a caso, al campo della vista: «se dit du corps dont la transparence est alterée», «ne voir pas nettement», con l'esempio del liquido dove resti in sospensione della sabbia. Quest'India fortemente simbolica, ma dentro il particolare sistema di riferimenti istituito con rigore dal poeta, il cui splendore è «trouble» ossia alterato da una vacillazione minima ma decisiva, ha piuttosto la natura di una visian (un leurre direbbe Lacan) che di una vue intesa come percezione assoluta della mente poetica, incontrovertibile, una volta per tutte (se si accetti la contrapposizione vue/visions di «Prose pour des Esseintes»). «Trouble» è davvero la parola chiave di un (eventuale) rapporto di Mallarmé con un Ihito -anche questo, s'intende, poetico -dell'Oriente; il suo Brucke, il suo divanocanale?1 Qualcosa, in effetti, resta sospeso, come la sabbia nell'acqua, o nell'aria, a provocare uno sfuocamento dei profili, in contrasto con la nettezza della vue, cui testimonia la freddezza minerale della pierrerie e del gisement non meno della congiunzione chant/sourire. Commentandola un po' in superficie, Mauron rileva in questa poesia un effetto d'arresto, che mette in scacco l'i15

dea stessa di viaggio. Io penso che la vacillazione di cui ho detto, si prolunghi invece in un saltare oltre, in un muoversi staccandosi da alcunché. Agli effetti della mia piccola ricerca, ciò che in metafora la «poupe double» può essere l'immagine ossessiva di un Oriente, di tutti gli Orienti di cui si è nutrita la poesia occidentale - appunto, il corteo delle visions. Del resto, quest'India non è neppure più un Oriente sfruttabile, ma un'esca, un miraggio. Per confrontarsi ancora una volta a Goethe, il rapporto di aspirare/espirare, l'atmen che coinvolge l'intero corpo, è sostituito in Mallarmé dal privilegio di una funzione parziale e perversa, il vedere. «Trouble» lo manifesta come un vedere attraverso una fenditura, un vedere in feritoia, come si direbbe en abime. La o accentata di «Vasco», alla fine, fa davvero buco - donde qualcosa è defluito irrimediabilmente. L'India non è la lente più prossima né quella più distante del cannocchiale: il rapporto si disperde nell'attimo in cui il testo sfonda verso qualcosa al di là, certo al di là di ogni esotismo, lussuoso o erudito; di ogni identificazione pratica (non altrimenti di quanto accada con la Cina di Kafka, nei frammenti della «Costruzione della muraglia cinese»). Sempre sul filo di Goethe2 , sono andato a ripescare, nell'Interpretazione dei sogni, le pagine relative a quello etichettato comunemente come «Goethe attacca il signor M». Che cosa ha associato, mi chiedo, questo sogno freudiano con il discorso abbozzato qui partendo dal West-ostlicher Divan, al di fuori dal richiamo così ovvio da apparire puerile, del nome di Goethe? Rileggo il rendiconto che ne fa Freud. Un suo amico, il signor M. è stato attaccato con violenza insolita e ingiusta 16

in uno scritto di mano di Goethe, e ne è rimasto molto abbattuto. Il sognatore cerca di ristabilire un certo ordine cronologico nella vicenda, partendo nei suoi calcoli dalla data di morte del poeta, il 1832. Prima di quella data, il signor M doveva essere molto giovane. D'altro canto, il sognatore non sa nemmeno bene in che anno si trovi e dunque smarrisce presto il bandolo dei calcoli. Rammenta solo che l'attacco era contenuto nel noto saggio di Goethe «Natura». Il commentario che Freud fa seguire al sogno, e il commentario dal commentario stilato da Didier Anzieu (Eauto-analyse de Freud) mettono in rilievo quello che è il carattere fondamentale del processo onirico in questo caso (e che serve, sotto l'aspetto della difesa appassionata, all'insorgente ambivalenza nei confronti di Fliess, ossia del signor M): il carattere dell'inversione, del «proprio il contrario». Preso di mira apparentemente è il signor M (Fliess), ma in realtà l'attacco si dirige a Freud stesso; i calcoli vengono fatti partendo dalla data di morte anziché da quella di nascita; nel sogno è un vecchio, Goethe, che attacca un giovine, all'opposto di quanto accade nella realtà del caso Fliess, eccetera. L'analisi moltiplica, con velocità e ampiezza scalari, una quantità di capovolgimenti di questo tipo. Non è dunque sul punto del nome (Goethe) ma del processo, che ho formato un collegamento fra il sogno di Freud e i modi di approccio della poesia occidentale contemporanea al tema, anzi al mito, dell'Oriente, rispetto alla posizione esemplare del Divan. Il dato in comune ai due ordini di considerazioni è appunto l'inversione. Il rapporto particolare ipotizzabile dietro certi testi di poeti italiani d'oggi, ancorché non codificato, rovescia la via regia che ho creduto di delineare per il Divan. Là Goethe operava partendo da una distanza al suo tema, all'Oriente, tanto più chiara e stabile quanto meno da museo, 17

da erudizione, da «teatro» - vorrei dire, una distanza di godimento. Era quella che permetteva, nello stesso tempo, lo scorrimento lungo l'asse spazio-temporale, e alla fine l'identificazione, o sarebbe più giusto dire l'armonizzazione delle due identità. Con lo sfondamento («cap que ta poupe double») oltre tale immagine a distanza di sicurezza e insieme di contatto, come un cannocchiale che si ringuaini in se stesso il paradigma goethiano s'inverte. Scomparsa la distanza, viene meno il processo di scambio. Se l'Oriente c'è, non è più possibile metterlo a fuoco, ossia metterlo a posto, in un posto determinato. D'altra parte, non è che ci si trovi di fronte a un nonrapporto, a una assenza di rapporto (parlo di testi e autori per i quali la domanda venga ragionevolmente in gioco). Sono stati digeriti i vecchi fondali di colori lussureggianti, gli orpelli, persino certe emozioni sommarie nemmeno insjncere; i poeti contemporanei assumono anziché dei temi (scenari), degli schemi (prospettive), se di Oriente si voglia proprio parlare. Se la distanza ha costruito, il capovolgimento può anche essere letto come incrinatura. Ruppi una volta un bel bicchiere ed ero lì per disperarmi; fretta e goffaggine in un fascio mandai a tutti i diavoli. Prima infuriai poi mollemente piansi al triste raccattare i cocci. Dio ebbe pena e lo rifece subito uguale e intero come prima. Un rimando, che sembrerebbe solo tematico, sposta da questo testo del Divan, a uno odierno, di Valerio Magrelli, da Nature e venature (Mondadori, 1987): 18

Ricevo da te questa tazza rossa per bere ai miei giorni uno ad uno nelle mattine pallide, le perle della lunga collana della sete. E se cadrà rompendosi, distrutto, io, dalla compassione, penserò a ripararla, per proseguire i baci ininterrotti. E ogni volta che il manico o l'orlo si incrineranno tornerò a incollarli finché il mio amore non avrà compiuto l'opera dura e lenta del mosaico. Scende lungo il declivio candido della tazza lungo l'interno concavo e luccicante, simile alla folgore, la crepa, nera, fissa, segno di un temporale che continua a tuonare sopra il paesaggio sonoro, di smalto. Non è più lo stesso impasto di caolino, silice e feldspati su cui il pennello, nell'«ora cinese» di Mallarmé, schizzava un altro paesaggio, improbabile difesa contro il Pays cruel e la morte. Vi si è aperta una crepa, quella frantumazione che Goethe ipotizzava solo per un istante, subito suturata dalla grazia divina. Nella poesia di Magrelli, tazza o bicchiere poco importa, essa non è più cancellabile: la fenditura, o almeno la sua cicatrice, permane «segno di un temporale» che non finisce mai. Si può ricostruire in questo modo il rapporto OrienteOccidente anche per certi libri e autori della contemporaneità che pure non sembrerebbero legati ad esso né apertamente né allusivamente? 19

Il riconoscimento eventuale procede su due livelli: il livello degli schemi formali e il livello dei grandi simboli che strutturano la maniera stessa di confrontarsi con la poesia. La chiamata in causa di Magrelli, per esempio, smette di apparire arbitraria se si cerchi di leggere quel bel libro che è Nature e venature con la mediazione di una pagina di Roland Barthes («Digressions», in Le bruissement de la langue) sul genere letterario giapponese dell'haiku, che «con una sua tecnica ovvero attraverso un codice metrico, ha saputo fare evaporare il significato; rimane soltanto una sottile nuvola di significante, ed è proprio a questo punto, a quanto pare, che con un'ultima torsione esso assume la maschera del leggibile, copia, privandoli tuttavia di ogni riferimento, gli attributi del "buon messaggio" (letterario): la chiarezza, la semplicità, l'eleganza, la finezza...». L'identikit barthesiano funziona per Magrelli in questo senso: che nella sua poesia riconosco la capacità di dissolvere - lessicalmente, ritmicamente - la buona quotidianità degli oggetti, degli scenari, dei motivi adibiti, non dirò in una mala ma piuttosto in una quotidianità vibratoria che evapora (evacua) il proprio valore referenziale in un sistema elegante e mendace di leggibilità. Fragile, ma non impossibile cordone che lega alla «figura dell'Oriente» testi che non pensano neppure a menzionarlo. È poi la crepa, la fenditura, attraverso la serie associatrice che risale da Mallarmé a Goethe, secondo la logica di questo discorso, a proporre un fantasma di raccordo più profondo, che chiama in causa, come ho già detto, il piano dei simboli strutturanti. Se per Goethe e il Divan si è parlato di una distanza come asse ideale che organizza ogni possibilità di contatto e di fusione, per cui il distante è solo l'altra faccia del più vicino (difatti Goethe è contemporaneo al suo Oriente mitico-poetico - felice disturbo percettivo che magnifica 20

per eccellenza il lontano...); la crepa, il suo opposto, schiaccia ogni costellazione ordinatrice di punti e fa di ogni pensabile Oriente una questione di archeologia, questione di qualche cosa che sta sepolta non si sa bene dove, come la Roma Quadrata, passibile di emergere improvvisamente da una fenditura o frattura, in sé dunque già metafora del sepolto/riscavato. Aggiungerò appena questo: che la frattura del vaso ci riconduce, per un «vicus of recirculation» neppure tanto comodo, a un'altra polarità del Divan - Io zersplittern del primo verso del libro. Se si applichi con un poco di larghezza il criterio, appena indicato, della quotidianità/semplicità-ingannevole, della condensazione leggibile, potrei dire dello schermo che si dissolve proponendosi, quale tratto di famiglia preconscio per la figura di un Oriente (enfatizzando l'articolo indeterminativo), non è azzardato servirsi di qualche altro scrittore d'oggi, Antonio Porta per esempio, due recenti libri del quale: Passi passaggi (Mondadori, 1980) e Invasioni (idem, 1984) esibiscono non pochi testi congruenti al proposito. Ancora una questione di vasi e di frantumi, nella sezione «Come può un poeta essere amato» di Invasioni, dove si identificherà un modo di concisione, di essenzialità linguistico-ritmica, una tendenza incoercibile a trattare la metafora come pura entità fenomenica, che non disgradirebbero alla retorica dell'haiku: poesia: vaso rotondo, liscio e bianco, chiuso galleggia sul fiume tumultuoso, scrosciante ma io prendo un martello pesante, lo lancio dalla sponda, lo faccio a pezzi, centrato in pieno in quell'istante e per sempre sprigiona tutta la sua luce 21

O, con maggiore concentrazione: Oggi quando il merlo della fine chiocciola ancora una volta il mio corpo si alleggerisce così che il vento lo soffia via ed io sono polvere cieca e feconda che si legge sempre in Invasioni; e in generale si veda tutta la suite che dà titolo al libro. L'invisibile Oriente, per ripeterlo ancora una volta, va a porsi non in un fondale ma in una scelta di toni e dimensioni. Incidentalmente, è solo così che assume significato quell'antologia, altrimenti un poco sorprendente, di traduzioni da Poeti arabi di Sicilia per mano di un gruppetto di scrittori italiani, da Porta appunto a Magrelli, a Zanzotto, a Raboni, Giudici, Fortini, Cucchi, Viviani eccetera - uscita un paio d'anni fa. (Come prova a rovescio della peculiarità di tali modi occidentali-orientali nella contemporaneità, ecco quel poeta peraltro grande che è E.E. Cummings in un testo di Tulips and Chimneys [1923], che riprende, fin dal titolo: «Orientale», gli scenari di certa sommaria celebrazione milleunanotte, o comunque di un Oriente quasi hollywoodiano: incensi, danze, l'imperatore dormiente in un palazzo di porfido, le «tre volte trecento donne dell'harem», le guardie «with bodies of lazy jade» eccetera... - ma lo scenario va subito in pezzi come in una scomposizione-ricomposizione alla Kandinskij, sotto un'insopportabile energia centrifuga delle forme, autosegmentazione della lettera, che produce specimini poetici inequivocabilmente novecenteschi come «the automaton moon» e risagomature e stravolgimenti delle metafore rituali come «thy body to me is April / in whose armpits is the approach of spring».) Procedo per colpi di sonda abbastanza avventurosi, e 22

fuori da qualunque ambizione sia pure vagamente esaustiva-del resto poco consigliabile in casi tanto ipotetici... Al massimo, si potranno rilevare i nodi d'incrocio fra trame per un momento sovrapposte. Hanno a che fare con qualche Oriente gli ideogrammi più o meno cinesi o giapponesi o anche solo di segnaletica turistico-pubblicitaria via via adibiti - da Il Galateo in bosco a Fosfeni a Idioma-da Andrea Zanzotto? Quando, per mera contiguità, verrebbe da interrogarsi sulle differenze, da supporre abissali, fra le ragioni di questo uso e della pioggia imperterrita di ideogrammi nei Cantos poundiani. Posso rischiare di domandarmi se la poesia di Giuseppe Conte, con i suoi simboli (danza, dono, divinità...) di totalizzazione delle presenze naturali, con la sua spinta neomitologica (viene in proposito il recente volume Le stagioni) non indichi à suo modo un qualche Oriente, un oriente mediterraneo o d'Asia Minore-magari per mediazione o tramite o Briicke di una paginetta freudiana, «Grande è la Diana efesia», e dell'omonima poesia di Goethe. (Viceversa, non saprei come sistemare i cinque versi montaliani allogati sotto il cartiglio «In oriente», piuttosto intriganti nel gioco fra «Sunna», «Scia», sogno e allitterazioni.) «Potenze prime» è formula della traduzione italiana già citata di Filiberto Borio, che colpisce il lettore di «Elementi», ancora dal Divan. «Di questi quattro» (scil: elementi, ossia amore, odio, vino, armi) «se il cantore/ sa mescer le potenze prime...». Il testo tedesco dice «urgewalt'gen Stoff», ossia sostanza, stoffa di potenza originaria- dunque l'espressione condensa in maniera suggestiva una nozione, la «potenza originaria», che s'orienta al campo della psicoanalisi, e una - «stoffa», «tessitura», infine «testo»- pertinente al letterario. 23

Difatti, sia pure a tentoni, la mia nota ha proceduto in parallelo a individuare e seguire certe fibre dei testi nella loro specificità formale e figurale, e ad abbozzare il reticolo delle potenze primarie sottese ai sistemi espressivi - s'intende nei limiti di quel rapporto Oriente-Occidente messo come punto di partenza. Il dato della distanza - inglobante peraltro già il suo antonimo - che ho usato come supporto del discorso, non conclude la questione, né se lo proponeva. Esso comunque ha designato, senza potere far più di tanto, il volume degli affetti che lavorano dentro il rapporto, di là dalle soluzioni letterarie. L'Oriente, allora, emerge non come decoro, scenario ma come frammento possibile di un'altra scena. Giuliano Gramigna 24

NOTE 1 Per il passaggio, o associazione, «canale/divano/psicoanalisi» non si saprebbe rimandare a migliore enunciato condensativo (e a un tempo analitico) di quello offerto da Miche} Leiris in Glossaire j'y serre mes gloses, alla voce «Psychanalyse: lapsus canalisés au moyen d'un canapé-lit». 2 Il filo, dal Divan, porta del resto un po' dappertutto. Anche a Marx, che ne sfrutta alcuni versi per illustrare le «astuzie della ragione storica»: «Solite diese Qual uns qualen / da sie unser Lust vermehrt, I hat nicht myriaden Seelen / Timurs Herrschaft augezehrt?» (Dovrà dolerci quel dolore I se accresce il nostro godimento?/ Non ha la tirannia di Timur I miriadi d'anime inghiottito?). Vedi: S.S. Prawer, La biblioteca di Marx, Milano, Garzanti, 1978. BIBLIOGRAFIA D. Anzieu, Eauto-analyse de Freud, Paris, PUF, 1988 (terza edizione rivista e rifusa in un volume). R. Barthes, Le bruissement de la langue, Paris, Sèuil, 1984. G. Conte, Le stagioni, Milano, Rizzoli, 1988. · E.R. Curtius, Europiiische Literatur und latinisches Mittelalter, Bem, A. Francke Ag. Verlag, 1948. J. Durandeau, Poétique analytique, Paris, Seuil, 1982. S. Freud, Einterpretazione dei sogni, Torino, Boringhieri, 1966. V. Magrelli, Nature e venature, Milano, Mondadori, 1987. S. Mallarmé, Oeuvres complètes: Poesies, Paris, Flammarion, 1983. C. Mauron, Mallarmé l'obscur, Paris, J. Corti, 1968. E. Montale, Eopera in versi, Torino, Einaudi, 1980. Poeti arabi di Sicilia, Milano, Mondadori, 1987. A. Porta, Passi passaggi, Milano, Mondadori, 1980. A. Porta, Invasioni, Milano, Mondadori, 1984. Per l'edizione italiana del Divan si è usato, come già detto: J.W. Goethe, Divano occidentale-orientale, traduzione di Filiberto Borio; Torino, Boringhieri, 1959. 25

Una rivoluzione della poesia lirica e la sua esca Ora che scrivo, guardando dalla finestra l'orizzonte impersonale tutto bianco di neve, unmucchio di paesaggi suoi viene qui a frapporsifra la carta che si fa nera e la neve. La p rima ragione che fece accostare Seferis a lui, che scriveva poesie nel gelo della· sua stanza, fu un posto simile: la sua camera di studente a Parigi... Molte poesie di Emily Dickinson e di Fernando Pessoa (benché diverse fra loro) fin dal primo verso evocano nel lettore il senso di un rapporto con la poesia stessa e con la natura assolutamente nuovo, e tale da porsi all'origine di una certa fioritura novecentesca della lirica. Ci proponiamo di individuare quale sia il tono, il timbro di voce che caratterizza quella poesia che ci colpisce, fin dall'incipit, per la forza e la novità. E leghiamo quel tono a tre elementi centrali, a qualcosa che riguarda il rapporto fra: primo) chi pronuncia la parola poetica assumendola al livello di un «io» già investito dallo choc del moderno; secondo) ciò che lo circonda fisicamente nell'atto di dire «io»: la stanza, la scrivania, la finestra, i fogli di carta, il paesaggio, la città, l'aria; terzo) il modo con cui qualcosa del primo e del secondo punto precipita sulla pagina in una sorta di capofitto temporale. Il rapporto fra questi tre elementi costituisce il nucleo interno di un modo di fare poesia distinto sia da quello dei romantici, sia dalla linea dei poeti transtorici che all'inizio del Novecento hanno operato una rivoluzione poetica fondata sulla «medesimazione» temporale di elementi antichi e contemporanei, mitici e quotidiani. 26

Il tempo nella poesia della Dickinson e di Pessoa è di una qualità diversa: si struttura, come dispositivo dei tre elementi messi in rapporto, in un nucleo individuato - «io scrivo». Questo «io scrivo» diventa il contenuto specifico, per la poesia lirica nel testo moderno, di quella vo- · lontà assoluta posta all'origine del fare poesia dall'«io voglio», che avevamo altrove ripreso, a certe condizioni, dal «volo» mistico1 . Ora per vedere come funziona e cosa significa questo «io scrivo» nelle poesie, o almeno in certe poesie, della Dickinson . e di Pessoa diamo una determinazione ai tre elementi che fanno il nodo: la stanza (il luogo della scrittura); l'«io» (il corpo, e le condizioni dell'enunciazione «io»); il tempo di questa scrittura. La stanza La lampada, la scrivania, il muro, la finestra, un oggetto, un rumore sono talvolta l'asse stesso intorno a cui ruota l'esperienza della scrittura. Siamo vicini a quelle nicchie, a quelle conchiglie che Francis Ponge concepisce come il più straordinario spazio abitativo per il genere umano2 • Costruito con la comune secrezione del mollusco uomo, con la cosa più proporzionata e condizionata al suo corpo, la parola, questo spazio per scrittori si addice particolarmente ai poeti che ne hanno realizzato gli esemplari più economici: nicchie mirabili per la ripartizione interna degli spazi, per l'impiego minimo di materiali, anche dei più modesti, simili, in questo, a certi «semplicissimi» manufatti egizi temperati nel legno, tinti d'azzurro, fragili da non durare un temporale, e che invece sono arrivati a noi. Con Hoffmann possiamo addirittura parlare di una graziosa fattoria come proprietà poetica, e di una stanza azzurra con una scrivania viola come luogo ideale per ri27

cevere in sogno la visione dell'Atlantide, e la sua scrittura in bella calligrafia3 • A Malte Laurids Brigge sarebbe bastata una casa tranquilla nei monti per diventare poeta: sarebbe stato «un poeta felice che racconta delle sue finestre, delle vetrine, della sua libreria dove si specchia assorta una cara profondità solitaria»4 • · Con la Dickinson e con Pessoa siamo invece in una ambientazione molto spoglia, di cui anzi non sappiamo quasi nulla, e che nulla ha in comune con la suggestione dei luoghi. Elementi minimali, legati all'involucro esterno del posto, si frappongono fra la pagina bianca e l'incipit come una scintilla, un granello d'inceppo che mette in moto, con l'attrito iniziale, il testo. È qualcosa di diverso dall'attenzione che avevano i romantici per il paesaggio circostante, o per lo stato d'animo dello scrivente; diverso anche dalla «stanza tutta per sé» con cinquecento sterline all'anno, di cui parla V. Woolf5. Qui siamo più indietro, appoggiati agli oggettini della stanza di poesia (come si potrebbe dire la stanza dei giochi) dove si è fissato uno sguardo istantaneo, distratto, un ascolto assorbito se mai vi sia segno di un richiamo. Ora sul testo appare una restituzione diagonale velocissima e trasformata degli elementi di partenza, spesso gli stessi, che tornano in una combinatoria inesauribile, in una semplicità tanto più ammirevole quanto più il testo parte alto a prendere il nostro occhio, o orecchio, di lettore, a sua volta consegnato alla semplice sorpresa dello scricchiolare del pennino sul foglio. Tante piccole protesi in fuga riconducono dagli angoli più diversi, e anche più difformi (come per poliedriche messe a fuoco dell'occhio della mosca) uno stesso accanimento ostensivo della condizione minimale d'enunciazione, della postura zero: il testo si apre mostrando il poeta scrivente in posizione, dove ciò che conta è la posizione, sempre variata, e ripetuta, mentre del poeta il testo non 28

ha che un sentore, un clima. Egli è il catalizzatore necessario, la presenza che si manifesta come intenzione reiterata,ma intenzione senza contenuto, e anche molto meno che un volto. Siamo di nuovo vicini al punto di vista- al Partitopreso delle cose - di Ponge che dalla nicchia conchiglia osserva: Les monuments de l'homme ressemblent aux morceaux de son squelette ou de n'importe quel squelette, à de grands os décharnés: ils n'évoquent aucun habitant à leur taille. Les cathédrales les plus énormes ne laissent sortir qu'une foule informe de fourmis... I monumenti dell'uomo somigliano ai pezzi del suo scheletro, o di qualsiasi scheletro, a grandi ossa scarnificate. Non evocano un abitante alla loro dimensione. Le cattedralipiù enormi non lasciano uscire che una folla informe di formiche... 6 Non è il poeta che siede a scrivere ma un resto osseo, un nulla di formica, una resistenza calcarea come ne lasciano le conchiglie, una volta l'animale allontanato o morto. E tuttavia è questa presenza la pietra d'inciampo nel testo, l'occasione ostensiva, che impropriamente potremmo chiamare shifterata, equivalente ai segnali shifter che indicano il soggetto. Così dalla stanza della poesia che tende a diventare «un posto nell'economia della natura», da questo «studiolo»7 , passa nel tessuto del testo un piccolo dettaglio, un oggetto, una parte del corpo presa come esterna e sorprendente: «la mano posata sul tavolo,/ la mano astratta, dimenticata». Con un salto questa cosa è trascinata nell'«abisso fatto di tempo», che dalla prossimità della scrivania conduce fino al remoto oriente: «La grande Sfinge dell'Egitto sogna dentro questo foglio... I Scrivo: e lei mi appare attraverso la mia mano trasparente». Qualcosa d'istantaneo- «D'improvviso mi fermo... Si è 29

oscurato tutto... Precipito in un abisso fatto di tempo...» - rompe il movimento oscillatorio vicino-lontano, e impone una sospensione laddove l'ago ha raggiunto la maggior ampiezza d'escursione includendo nella stanza (il punto più marcato del ravvicinato) il suo contrario geografico e logico: l'oriente. "Io" labile, "io" multiplo Avevamo mostrato in Hopkins le figure dell'opposizione e dello sdoppiamento, la lotta della mente che si innalza contro se stessa, montagna e abisso, una parte a torturare l'altra: pensieri contro pensieri, cuori che stridono contro se stessi. Una solitudine divisa al suo interno da un «io» dialogante, dal sorgere di un controcanto, si espone a se stessa nell'invocazione di un richiamo, di un attimo di ispirazione che susciti ancora una volta quell'altra parte della voce che grida il suo squillante tuba mirum. Avevamo insistito sulla brevità di quella voce, stretta fra il visibile e il parlato, espressa drammaticamente nel sonetto 69 dove il poeta si ritrae con orrore dall'immagine del proprio volto riflessa in un cucchiaio: il mostro che gli appare lo inchioda in quella brevità allucinata di gesti e di sguardi. C'è nella litografia di M.C. Escher -Band with Refiecting Sphere - una mano che viene, sotto, dal fuori quadro a sorreggere una sfera in cui si riflette la figura di chi regge la sfera. Ci sono anche due mani che si disegnano l'un l'altra - Drawing Hands - in entrambi i casi l'idea funambolica di «io» in vertigine, sospeso a una parte di se stesso, come a un mostro separato dal suo accidentato «io», ci porta oltreHopkins alla «mano sul tavolo» di Pessoa. Qui la duplicazione è spinta a livelli mai raggiunti. Questo poeta drammatico, pieno di voci e di persone, che scrive poesia lirica, ha creato più di dieci eteronimi che 30

affiancano con la· loro produzione quella ortonima. Non vale insistere su tale evidente molteplicità di rispecchiamenti: «mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che distorcono in riflessi falsi un'unica anteriore realtà che non è in nessuno ed è in tutti»8 • Basta qui notare che a questa molteplicità corrisponde un'intrinseca labilità: una sensibilità colpita da «inversione sessuale frustrata», «un temperamento femminile con una intelligenza maschile»9 • Pessoa si riconosce una natura indeterminata, una natura ermafrodita, e fra i molti precedenti - in questo Pessoa concorda perfettamente con V. Woolf, per la quale Shakespeare, Keats, Coleridge e Proust erano androgini, in obbedienza al fatto che «la poesia ha bisogno di una madre oltre che di un padre»10 -fra i precedenti sceglie Rousseau, con cui ha molte, veramente troppe «affinità»: «in certe cose i nostri caratteri sono identici»11 • Dunque per l'intrinseca labilità, l'«io» che scrive «non ha principi: oggi difende una cosa, domani un'altra»12 ; non ricorda nulla: tutto è sprofondato, riassunto in uno strano presente che incornicia l'attimo della scrittura. Questo «io» labile si affaccia sul testo con una particolare nudità. Giorgio Seferis, incontrando il nostro discorso, dice: «il poeta non ha nulla: "non ha identità", "non ha io", "è la più antipoetica esistenza che esista al mondo", "è un camaleonte"»13 • Nell'ordinamento delle brevi poesie di Emily Dickinson, un «pensiero della poesia» ricchissimo e folgorante domina lo spazio dove un «io» sempre presente funziona come valvola di passaggio, senza barriera, fra ciò che è vicino e ciò che è lontano, fra ciò che è reale e materiale e ciò che è mentale: anche la mente ha il suo spazio, i suoi corridoi. L'Eliso non è più lontano della camera attigua14, 31

e la camera passa nella mente se entrambe sono luogo di visite misteriose, di presenze e di animali, con insistente permanere felice o persecutorio. La funzione regolatrice della valvola «io» si mantiene come punto nevralgico una poesia dopo l'altra (più di centocinquanta cominciano con la parola «io»). La fallalo si vede nei testi riportati oltre- è nel tempo, non storico, ma istantaneo che precipita sul testo come una rottura e una lontananza: l'occasione che lo rovescia, aprendolo verso un fuoco, che è il suo oriente: «un vagabondo dalla Genesi/ ha distrutto il pendolo». Un lampo colpisce il testo: «Mi colpiva ogni giorno - / Sempre era nuovo il lampo/ Come se in quell'istante si spaccasse la nuvola/ E sprigionasse il fuoco». Solo presente, istantaneo Il fattore tempo, nella nostra tripartizione, caratterizza in maniera decisiva il passaggio al testo moderno che cerchiamo. Si tratta qui di una frattura, di un vero spostamento rispetto alla temporalità «sul testo» assunta dai romantici, ad esempio, con la formulazione di W. Wordsworth: «emotion recollected in tranquillity». La distanza temporale frapposta fra emozione, ricordo e ricostruzione, si riflette nel testo, nella tranquillità con cui si sedimenta ogni passaggio (percepire e descrivere dalla parte dell'oggetto, percepire e sentire con emozione dalla parte del soggetto - Hopkins ha scritto molto su questo, nel Journal) si sedimenta ogni interruzione a favore dell'ordinato dispiegarsi dei temi, dell'armonico sviluppo delle immagini, dell'assestamento reciproco dei valori semantici delle parole intervenute nel testo e reciprocamente sollecitate. Sentiamo che invece la pausa è soppressa nei testi di 32

Pessoa e della Dickinson: l'«io» camaleontico, rinunciando alla consistenza soggettiva, brucia l'involucro temporale protettivo messo dai romantici intorno all'emozione, e il passaggio all'epressione si fa con un salto, un'interruzione. Pessoa rovescia il filtro temporale, posto come indugio all'epressione, con una definitiva esclusione dei termini. Ecco la sua ripartizione: Ogni vera emozione è una menzogna nell'intelligenza, perché non si realizza in questa. Ogni vera emozione ha pertanto una espressione falsa. Esprimersi è dire ciò che non si sente15 ; Così: La simulazione è più facile, anche perché è più spontanea, in poesia16 • Irrelata, ora l'espressione è libera di organizzarsi senza misurare la reciproca posizione con l'antico correlato emozionale. La disponibilità vagante dei due termini a scontrarsi ha una forza dirompente che vedremo all'opera nell'«io scrivo», non nel senso di un'avvicinamento dell'espressione al contenuto emozionale, già escluso da Pessoa, ma nel senso di un'aggressione, di una forza che ciascuno dei termini non può ricevere in sé, ma che entra in conto nell'operazione attraverso l'unità di tempo, il presente in cui concorrono entrambi. Questo tempo presente non ha nulla a che vedere con il tempo che per Seferis accomuna Kavafis e Eliot a Joyce e Yeats nell'espressione: sì, «sono un poeta storico»17• Questo, Pessoa e Dickinson non potrebbero dirlo: essi non p�ssano sotto l'arco di volta mitico che euforizza il parallelismo contemporaneo-antico, né fanno propria l'onnivora dimensione transletteraria. Ciò non significa che non possano poi afferrare anch'essi, inchiodati al presen33

te, all'istante ripetuto dell'«io scrivo», lo specchio del tempo che Seferis porge a tutti i poeti: Questo lo specchio che protende il poeta: vi si guardano tutti quelli che non s'illudono, tutti quelli che hanno il coraggio di guardarsi: è lo specchio del tempo; è il senso del tempo. In parole più semplici: c'è un senso della medesimazione temporale: il passato si medesima col presente e forse col futuro18 • Questo specchio sancisce l'atto d'inaugurazione del testo poetico come atto di coraggio, poiché guardarsi significa prendere su di sé il senso del tempo. È quanto riconosce il narratore hoffmanniano incapace di compiere l'opera redigendo la dodicesima veglia. Mi sentivo prigioniero delle miserie della vita quotidiana(...) pensai che non mi sarebbe mai concesso di aggiungere come chiave di volta la dodicesima veglia, poiché ogni qualvolta di notte mi accingevo all'opera era come se perfidi spiriti mi presentassero un metallo lustro nel quale scorgevo il mio io, pallido per le notti vegliate e malinconico... allora buttavo via la penna e correvo a letto per sognare almeno il felice Anselmo e la cara Serpentina19 • È necessario aggirare l'ostacolo, eludere l'immagine riflessa, lasciare la soffitta e raggiungere la stanza azzurra, il luogo della scrittura: allora un salto nel sonno, e la visione è scritta. Così anche i nostri poeti, abbandonando la tranquilla ricostruzione nel tempo, compiono un salto: affacciati allo specchio, guardano al testo ed entrano in un tempo istantaneo, assoluto, sciolto cioè, solo presente «io scrivo» senza spessore o continuità; un tempo istantaneamente riportato al testo come luogo di incontro-scontro 34

di parole, di strutture verbali e sintattiche. Con una disposizione nuova il testo coglie l'apertura della parola alla parola, del suono al suono, del significato al significato: l'attimo della scrittura si annienta travolgendo ogni predisposizione antecedente d'articolazione e di senso, per assumere di volta in volta, a ogni ripresa del lavoro morfogenetico, il dettato dispotico e assoluto dell'istante. Il discorso assume ora necessariamente il punto di vista di una riattualizzazione delle fasi di produzione del testo - ogni lettura come esecuzione si pone già in qualche modo in questa prospettiva - poiché solo una genetica creativa consente di individuare il livello di fluidità e di interazione globale degli elementi del testo che si richiede in questa descrizione. Questo solo presente, istantaneo, diventa così il luogo temporale della scrittura, l'unità di presente applicata n volte al materiale linguistico e poetico su cui funziona come un orientamento potente, entropico che porta a rapido esaurirsi le figure della continuità: il continuum del pensiero, il tema, l'immagine, il verso, e instaura invece una serie di effetti alla base della nuova tradizione della poesia lirica che cerchiamo di mettere in luce. Qui il punto di vista della rottura temporale non fornisce che il correlato simmetrico alla rottura dell'«io». Diventa ora determinante lo studio degli effetti delle due rotture sull'insieme dei processi semantici e linguistici che, date queste nuove condizioni, si determinano nel testo poetico: è intorno a questo che si stringe il nodo della rete di nessi che abbiamo individuato come «io scrivo». Riassumendo: un nucleo operativo trasforma nell'applicazione al testo una situazione in cui concorre, come già detto, un luogo della scrittura preso come pezzo di natura che fornisce anche il punto d'inciampo per l'entrata nel testo; e concorre un «io» labile e multiplo che entra nella presa di parola vincolando il testo agli sbalzi aggressivi del motore emozionale, lato dell'applicazione. Il modo 35

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