Il piccolo Hans - anno XVI - n. 62 - estate 1989

da erudizione, da «teatro» - vorrei dire, una distanza di godimento. Era quella che permetteva, nello stesso tempo, lo scorrimento lungo l'asse spazio-temporale, e alla fine l'identificazione, o sarebbe più giusto dire l'armonizzazione delle due identità. Con lo sfondamento («cap que ta poupe double») oltre tale immagine a distanza di sicurezza e insieme di contatto, come un cannocchiale che si ringuaini in se stesso il paradigma goethiano s'inverte. Scomparsa la distanza, viene meno il processo di scambio. Se l'Oriente c'è, non è più possibile metterlo a fuoco, ossia metterlo a posto, in un posto determinato. D'altra parte, non è che ci si trovi di fronte a un nonrapporto, a una assenza di rapporto (parlo di testi e autori per i quali la domanda venga ragionevolmente in gioco). Sono stati digeriti i vecchi fondali di colori lussureggianti, gli orpelli, persino certe emozioni sommarie nemmeno insjncere; i poeti contemporanei assumono anziché dei temi (scenari), degli schemi (prospettive), se di Oriente si voglia proprio parlare. Se la distanza ha costruito, il capovolgimento può anche essere letto come incrinatura. Ruppi una volta un bel bicchiere ed ero lì per disperarmi; fretta e goffaggine in un fascio mandai a tutti i diavoli. Prima infuriai poi mollemente piansi al triste raccattare i cocci. Dio ebbe pena e lo rifece subito uguale e intero come prima. Un rimando, che sembrerebbe solo tematico, sposta da questo testo del Divan, a uno odierno, di Valerio Magrelli, da Nature e venature (Mondadori, 1987): 18

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