Precisato così il compito della poesia, ecco allora, negli enunciati di apertura e di chiusura dell'egloga, le affermazioni decisive che circoscrivono, in re, l'assiologia dell'operazione: «Ces nymphes, je les veux perpétuer» e «Je vais voir l'ombre que tu devins»: ove «perpétuer» -verbo della «finzione», o della creazione - spalanca, in limine, la prospettiva di quella che sarà la nuova dimensione del poema (e, in generale, di tutta la poesia di Mallarmé, a partire dal Toast funèbre, scritto e stampato tre anni prima: per cui il programma annunciato dal fauno dell'Après-midi figura parzialmente già realizzato alle sue spalle, e annovera titoli, come si è detto, quali lgitur e Prose), mentre «ombre», in uscita, ne ratifica, come attuato, il significato sospeso alla reggenza del verbo del volere, attraverso la propria collocazione nell'accaduto (per il valore del vocabolo, ovviamente positivo, si veda nel capitolo conclusivo sotto questa voce). La realtà sta dunque interamente racchiusa fra questi due enunciati meta-discorsivi che designano, dai bordi terminali, il testo stesso, l'egloga, rispettivamente nella progettualità del fieri e nella conclusione del factum: fuori di lì, non sarà più legittimo cercarla né ipotizzarne la presenza. Riassumendo ora, e precisando nel concreto le due posizioni, si potrà affermare che, nel Monologue (e indipendentemente dalle oscillazioni del protagonista fra realtà e irrealtà, sogno e reminiscenza), il linguaggio permane ancorato al suo statuto tradizionale di resa dell'oggetto, pur se questo si dia come semi-cancellato dal preponderare dell'«impression» sul concetto, o sia viceversa amplificato dall'enfasi delirante del personaggio. Impressionismo squisito («le clair / Rubis des seins levés embrase encore l'air / Immobile») ed iperbolica esaltazione erotica («Mon corps [...] I Répand presque les feux rouges du vieil Etna!»), riposano pur sempre sulla consegna della funzione riproduttiva del linguaggio e sull'idea della sua subordi168
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