Il piccolo Hans - anno XVI - n. 62 - estate 1989

vita, e giocare d'anticipo su di essa. che tra il «fare» e il «morire» non si stringa alleanza, questo certo non preoccupa Marlow, ma nemmeno che tra quei due contendenti non si apra più un duello all'ultimo sangue, come ancora l'apriva l'onnisciente narratore hardyano. Un duello egli l'impone, ma futile, del tipo di quello cui Conrad condannerà i protagonisti di The Duel (1907): reciproco insensato inseguimento in una contesa senza oggetto, e di conseguenza senza possibile sconfitta né vittoria. dovremo allora accettare l'umiliazione estrema: che un vivere, scoperto ineroico, sia poi consegnato a un racconto che proprio di quella ineroicità si alimenta, facendone materia del suo canto? Che il nucleo tragico dell'esperienza, rivelatosi inattingibile, sia poi obbligato a sopravvivere come vuota forma, artificiale orpello, che il racconto indossa e smette a piacere? Che il «Do orDie» dell'impresa sia solo un modo altisonante per annunciare che nessun fare è veramente un «fare», finché non «muore» nel racconto? Dovrà esser sempre la Judea a inabissarsi, e Marlow a trionfare? Mai il racconto riconoscerà come propria debolezza l'anticipo che lo stacca dalla vita? Mai potrà dire quella debolezza? Mai scenderà a terra sulla costa dell'Oriente? il «viaggio», la «giovinezza», !'«Oriente»: tutti i nomi di cui Marlow fa bottino, liberamente disponendone; raccordandoli in vista della meta finale, del buio totale che all'ultimo farà apparire. Ma dove la trova, il suo racconto, la forza di superare il vuoto - quello sì - che lo separa da essi, dai nomi semplici della vita, dell'avventura? o, che è un altro modo di porre la stessa domanda: dove vive il racconto? perché è evidente che, laddove il narratore è il solo, ancorché ultimo, eroe, il mondo è fatto tutto, e solo, di letteratura. Ma allora il racconto non è più di questo mondo. Non ha più questo mondo: non sa più leggere il prato e il 141

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