Il piccolo Hans - anno XVI - n. 62 - estate 1989

singolarità individuale, si disfa, ed emerge il dato comune di materialità di tutto ciò che semplicemente vive e muore. Vite così integralmente consegnate alla propria meta, così unicamente orientate verso il proprio telos quali sono quelle del capitano e di Marlow, al fondo non possono che rivelarsi attuazione quotidiana e scrupolosa della morte che ogni essere vivente porta iscritta dentro di sé fin dalla nascita. Non possono che affogare in quella quotidianità, aderire ai minuti frammenti di essa; esserne la «cronaca». Se nella tragedia il morire era il vero e ultimo «fare», ora è il fare, ogni fare, a svelarsi di per sé già un «morire», ma senza niente al di là. Di tutta l'impresa, è l'«o» la parte più perigliosa, la più difficile da difendere. Il racconto, allora, non supera la tragedia, piuttosto sta a indicarne l'impossibilità. L'individuo ricade entro se stesso, coincide col proprio piano genetico: non trova per definizione nulla con cui entrare in conflitto, contro cui determinarsi. Allora anche il narrare di Marlow è questa obbedienza cieca a un impulso inspiegato: tutto lì il suo eroismo. E anche la morte, quando arriva, non può esservi che l'estremo confine della vita, la sua meta ovvia, che le viene incontro: ma non c'è alcuna vittoria né a schivarla né ad affrontarla, giacché essa vale quanto qualsiasi altro morituro fare. Vivere è «chancing death» (p. 17), ma sottoposto al caso non è che il momento dell'incontro fortuito con la morte. La morte è quella caducità fortuita. Da quando ciò che poteva esser pensato come l'etico - come fedeltà alla Legge - ha rivelato se stesso come materia, natura, datità, un determinismo povero ha preso il sopravvento sulla necessità tragica. Un determinismo ferreo, nella sua specularità: che richiude il fatto sul fatto, senza più la risonanza del simbolo. Tutti i fatti, anche quelli eroici della memoria. Chance è divinità sminuita, dalle forze seriamente compromesse; non la tonalità ricca dell'accadere dobbia136

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