Il piccolo Hans - anno XVI - n. 62 - estate 1989

allora che il racconto della giovinezza simbolicamente non scenda a terra, che non varchi la costa dell'Oriente. Il racconto lavora perciò tutto per la vita, e tiene a distanza la morte, come ciò che nega la vita. Non solo c'è vittoria in Youth, in questo senso, ma vittoria ci sarebbe nella forma-racconto, nella forza che essa avrebbe di protendersi verso la necessaria fine, di fissare lo sguardo su di essa, purtuttavia negandola. Il racconto sarebbe il superamento della tragedia, il suo passaggio in una forma più alta, perché più assolutamente umana: tutta dispiegata sul versante del «fare», nel verum della storia. Sarebbe in questa negazione non simbolica della morte, il «consiglio» di Marlow narratore. Di questa negazione egli sarebbe l'eroe. Le linee di demarcazione dunque sono nette: tutta del «fare» è la vita, e supremo «fare» è quello di Marlow, che impone significato e sconfigge la morte. Sappiamo che sullaludea, però, il «fare» non è l'esecuzione di un compito che leghi l'individuo alla comunità, ma l'ostinato perseverare in un'azione che semmai lo stacca da essa isolandolo «nell'unicità della sua idea»: così è per il capitano, così è per Marlow quando nell'emergenza del naufragio, tutto solo e contravvenendo a un ordine preciso, decide che la sua scialuppa si separerà dalle .altre e toccherà per prima il traguardo dell'Oriente. Ed è per questo motivo che, nel momento della tensione suprema, dello sforzo massimo e vittorioso della volontà, una nuova indecidibilità si fa strada, e torna a confondere, a mescolare, i due campi che sembravano tanto nettamente segnati del «fare» e del «morire». L'assolutezza stessa del compito, il suo presentarsi sciolto da ogni interesse materiale e secondo fine mondano - quanto insomma per altri versi ne sanziona la purezza e la nobiltà - finisce poi inesorabilmente col riconsegnare l'individuo, che quel compito si è autoimposto, all'indifferenziato della materia. Il tratto di definitezza, di 135

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