Il piccolo Hans - anno XVI - n. 62 - estate 1989

"tutto muore" (p. 12) Dipinta in lettere d'oro, spicca sulla poppa della vecchia nave l'impresa: «Do or Die» (p. 16). Fa' o muori: sembra che Conrad abbia voluto naturalizzare nella forma narrativa il punto di vista tragico sull'esistenza, che pone la morte come il più alto fare concesso agli umani. A costo della morte «fa» Antigone, nella tragedia di Sofocle: tutta la sua azione è lì un fare-per-lamorte. Sottraendo il cadavere del fratello all'oltraggio del mondo diurno, ella lo reinstaura nel legame con ciò che viene prima della polis stessa, prima del diritto dello Stato. Lo ricolloca nel mondo notturno della famiglia e della legge del sangue, dove la morte circola come una presenza della vita: la sua stessa morte, dopo questo, non è che un compimento, una restituzione del corpo alle potenze ctonie, sotterranee, alle quali appartiene per antico e inviolabile diritto. Questa parentela stretta, nella tragedia, il «fare» ha col «morire»: che la morte non è il confine oscuro al di qua del quale la vita si arresta, ché anzi è nella morte la vera vita, la verità della vita. Solo nel deliberato inoltrarsi verso la morte la vita, nella tragedia, conosce appieno se stessa. Ma dal racconto di Marlow la morte è, lo sappiamo, respinta fuori. Posta oltre un confine invalicabile. L'«o» dell'impresa sta proprio a segnare la mutua esclusione fra i due termini: o si «fa» o si «muore»; non come nella tragedia dove quell'«o», se pure ve lo si volesse sentire, avrebbe il valore di un «e», di un'indifferenza tutta orientata nel senso della vita. Nel racconto di Marlow in Youth la morte è un simbolo: è l'Oriente, la giovinezza. E anche quando, in altri suoi racconti, essa realmente accade, non è che «orrore», come per Kurtz in Cuore di tenebra, o al massimo cessazione e sconfitta da ogni fare; solo scoglio sul quale il vivere si infrange con onore, come inLordlim, ma in ogni caso irrimediabilmente si infrange. È giusto 134

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