Il piccolo Hans - anno XVI - n. 62 - estate 1989

illustrazioni della vita, che potrebbero stare come simboli dell'esistenza» (p. 9) Perché anche lui, Marlow, parla della vita: il mare, il viaggio, l'Oriente, la giovinezza-i temi stessi del racconto-si trovano anzi subito, da questo suo avvertimento preliminare, come spostati di un grado, deliberatamente messi al servizio della vita, in qualità di suoi «simboli». In essenza, ci viene fatto capire, la vita sta altrove: fuori del racconto, inaccessibile ad esso. Tuttavia il racconto può «illustrarla». Simbolica infatti non è la vita, che sta fuori, ma solo la trattazione che Marlow si accinge a darne. Su questo punto dello statuto ontologico del racconto, la divergenza fra l'«io» e Marlow è massima: quanto per l'uno è «storia», o addirittura «cronaca» - qualcosa che aderisce minutamente alla vita, e si perde nella sua scansione quotidiana senza acquistarvi un rilievo proprioper l'altro è invece illustrazione: parole che si distaccano dalla vita e ne prendono le distanze, non potendo appartenerle, ossia nascere dall'interno della vita stessa. Il lavoro di Marlow è per illustrare: è questo il suo specifico sapere di narratore. In questo egli è persona «di consiglio». Il narratore, dice Benjamin, è colui che, narrando, dà un consiglio. Ma: «un uomo si apre a un consiglio solo nella misura in cui sa far parlare la propria situazione»2. L'«io», però, non parla; si limita ad ascoltare in silenzio: non ha una storia propria, una propria situazione da far parlare. In che misura, allora, si aprirà al consiglio? In che misura saprà far propria l'illustrazione? Il che porta all'altra domanda: in che misura quella di Marlow è un'esperienza comunicabile? La posizione di chi racconta è opposta a quella di chi sogna: chi sogna sta sempre sul posto, chi racconta non raggiunge mai il luogo. Due posizioni estreme: la «visione» di Kubla Khan, e la «rima» del Vecchio Marinaio. 125

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