Il piccolo Hans - anno XVI - n. 62 - estate 1989

direi per antifrasi. La poesia del Divan è ancora per eccellenza un ·enkomion, celebrazione di una felicità potenziale, diffusa dappertutto: come dice pressappoco Curtius, il poeta sperpera in godimento il dono che gli è stato concesso, per produrre a sua volta godimento. Mentre si potrebbe facilmente assegnare a ùna buona parte della poesia contemporanea il segno opposto della frantumazione: il processo in cui si attua sarà di disperdere le proprie membra, e averne coscienza, piuttosto che di contemplare con giubilo il proprio «wertes Ich» in unità. S'intende che ogni generalizzazione si uccide un istante dopo essersi legittimamente presentata. È giusto riconoscere che nel privilegiare il punto di partenza ha operato la suggestione di quel nome che sta in capo al libro stesso: Divan. Nomi trapungono gli spazi mentali come contatti, «facilitazioni», imbocchi, indicazioni di sentieri o ponti per andare oltre. Appunto, uno di questi nomi è Briicke. Un altro è Divan, Divano, che dimette presto il senso, più confacente all'occasione, di quaderno, raccolta di poesie liriche secondo l'uso letterario arabo, per arricchirsi di una serie di armoniche semantiche, fino a saltare in campi diversi. Funzione di regesto, di trasmissione di una esperienza poetica - ma anche luogo dove tale esperienza e tale trasmissione si producono. Il lettore contemporaneo, con un minimo di fantasia analogica, non può fare a meno di associare con i significati che «divano» ha assunto nella pratica psicoanalitica, addirittura nelle prescrizioni inaugurate da Freud: dunque nel senso più ampio di una tecnica. Il diwan arabo, raccolta di testi, e il lettuccio per l'analizzante hanno almeno questo in comune: sono oggetti (strumenti?) che localizzano un discorso. Il discorso esi12

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