to con il testo, il personaggio può tornarci in mente per giorni o per anni tutte le volte che tentiamo di spiegarne discrepanze e lacune seguendo la mutata e accresciuta conoscenza di noi stessi e dei nostri simili» (ibid., p. 137). Ma, nei suoi possibili eccessi, Chatman offre lo spunto per ridiscutere un'opposizione che è stata accettata con sorprendente ed incauta benevolenza: «psicologico» versus «linguistico». Legittima nell'epoca dei Formalisti, quest'opposizione (almeno nella sua f o rma più diffusa) appare oggi improponibile dal punto di vista sia delle discipline che studiano il soggetto sia di quelle che studiano il linguaggio. Quanto alle prime, basterà ricordare che, per la psicoanalisi lacaniana, il soggetto è linguaggio, o perlomeno è traducibile in linguaggio: infatti la teoria dei registri può venir traslitterata nella teoria dei regimi figurali.4 Se interpretata correttamente, la psicoanalisi non lascia spazio alle vecchie «essenze psicologiche». Quanto alle seconde, andrà osservato che «linguaggio» non è un vocabolo né univoco né taumaturgico. Il problema sarà, allora: quale concezione del linguaggio merita di venir opposta alla «psicologia del personaggio»? Si direbbe che gli attuali sviluppi della linguistica e dell'ermeneutica riconoscano - mutandone la f orma - più le ragioni dell'ingenua lettura «psicologica» che non quelle, sorvegliate e povere, dei primi narratologi. Alla «fallacia esistenziale» consistente nel discutere i personaggi di finzione come se si trattasse di persone reali, si potrebbe infatti riconoscere una legittimità «profetica». Interrogarsi, ad esempio, sulla personalità di Jago, sugli oscuri motivi che generano la sua trama, non è necessariamente un'attività psicologica, legittima nella privacy del lettore empirico ed esclusa dalla «linguisticità» del lettore-modello: al contrario, si tratta in larga misura di un fatto pubblico, che l'ermeneutica gadameriana descrive come «storia effettuale» (Wirkungsgeschichte), cioè 41
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