Il piccolo Hans - anno XV - n. 59 - autunno 1988

quell'identità strategica che è già stata intuita dalla psicoanalisi e dalla microsociologia. Nonostante la sua cautela, la semiotica sembra comunque avviata a percepire i limiti di uno sguardo istituzionale, e a favorire l'elaborazione di modelli interpretativi sempre meno rigidi: dopo aver agitato lo stendardo della «forma del contenuto» contro le parafrasi ingenuamente psicologiste, la semiotica si accorge che la ricchezza di un testo non sta nella sua inerzia archetipica, bensì nei processi di trasformazione e nelle mobili strategie del senso. In questa sede, tenteremo di fornire una conferma di questi enunciati generali: per quanto inevitabilmente provvisorio e incompleto,1 il nostro contributo potrà evidenziare la vocazione pauperista di molta narratologia, lasciando intravedere la possibilità di una ricerca impensabile in assenza della retorica, arte delle superfici. 1. Due teorie semiotiche: funzionale e pulviscolare L'approccio semiotico al problema del personaggio letterario può venir schematizzato in due filoni, che solo in parte si succedono cronologicamente (verificheremo poi l'adeguatezza di questa dicotomia): il primo è riconoscibile in una concezione del personaggio di tipo funzionale (o proairetico), il secondo in una concezione di tipo pulviscolare (o atomistico). Le ragioni di queste sigle sono piuttosto evidenti. La semiotica (Bremond, Greimas, Todorov, un certo Barthes, ecc.) ha ereditato dai Formalisti (Propp, Tomasevskij) una concezione che si può far risalire ad Aristotele (cfr. Chatman 1978, trad. it. pp. 114-15): tutti gli autori nominati concordano nell'affermare «che i personaggi sono prodotti dell'intreccio», che il loro statuto è «funzionale», in breve che essi sono partecipanti o attanti più che persone e che è sbagliato considerarli come esseri reali. Una teoria narrativa, dicono, deve evitare le essenze psicologi37

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