Il piccolo Hans - anno XV - n. 59 - autunno 1988

«lauro»), l'antitesi del senso antonomastico (Cristo non più Laura). Dunque, A la dolce ombra, se fosse stata per davvero «murata nella serie ultima e definitiva», lo sarebbe stata proprio perché «a un certo punto, essa parve all'autore la sola soluzione possibile»11 ; se ciò non è avvenuto, se la sua funzione privilegiata «s'è perduta poi nell'implacabile costruzione del Canzoniere, tessera fra tante nell'organismo»12, lo si deve probabilmente all'insorgenza di altre considerazioni che hanno poi guidato Petrarca nell'allestimento della forma definitiva dei Rerum vulgarium fragmenta. Se adesso passiamo al sonetto CLXXXIX (Passa la nave mia colma d'oblio), ultimo della forma Chigi, non possiamo non scorgere un mutamento d'asse narrativo formidabile. Il sonetto riproduce uno dei topoi dello smarrimento più caro al Petrarca, quello della nave in preda alla tempesta o improvvidamente guidata (e che trova la sua massima realizzazione nella già citata sestina LXXX, Chi è fermato, della quale qui si riproducono tre parole-rima: LEGNO, qui fuor di sineddoche NAVE al v. 1, VELA al v. 7 e PORTO, che è la parola in rima che conclude l'ultimo terzetto). Con Amore («[i]l signore, anzi 'l nimico mio») come nocchiero, la nave è sballottata dalla tempesta cui volontariamente è andata incontro («che la tempesta e 'l fin par ch'abbi a scherno»). Le stanche sarte sono bagnate dalle lacrime (pioggia di lagrimar) e rallentate da una nebbia di sdegni; i duo mei dolci usati segni, le due stelle polari, gli occhi di Laura, sono oramai nascosti e, in questo perturbamento della passione, non si può che desperar del porto. Dunque, al «ripensamento» volitivo di A la dolce ombra, Petrarca ha qui sostituito il senso di una disperazione senza soluzioni; se nella sestina si faceva riferimento ad un passato comunque felice, ma traviante, cui s'opponeva un futuro atto a procacciare ben altra felicità; in questo 154

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