Il piccolo Hans - anno XIV - n. 56 - inverno 1987

pronunciata dal nuntius per il destino imposto alle Troiane: al lamento di Ecuba, che impreca sul proprio destino, il nuntius risponde sbrigativamente (e sono le ultime battute della tragedia) invitando le captivae a raggiungere le navi (1177-78). Quasi a sancire l'assenza della pacificazione, Seneca elimina anche la scena della cerimonia funebre di Astianatte, scena che nelle Troiane di Euripide ha un forte impatto emotivo (1156-57; 1207-08) e che ha di per se stessa un chiaro valore simbolico, riecheggiando l'uso (anche iliadico) di sospendere le ostilità per consentire l'inumazione dei cadaveri. Nelle Troiane di Seneca lo scempio del corpo di Astianatte è tale da rendere difficili e superflue le stesse onoranze funebri; le condizioni del cadavere, precipitato dalla torre, sono descritte dal nuntius con il gusto barocco per il macabro tipico dell'epoca di Seneca: «ma che membra ha lasciato il precipizio? La caduta ha spezzato le ossa, le ha disperse. Il nobile profilo di quel corpo, i tratti di suo padre: tutto è sconvolto dall'urto a terra del peso dall'alto. Il collo si è spezzato su una pietra, il cranio è rotto, col cervello di fuori. È steso a terra, corpo senza forma» (1110-17). Ma è la scena centrale, il confronto fra Ulisse ed Andromaca del terzo atto, a rivelare nel modo più eclatante la distanza di Seneca da Euripide. Ettore appare in sogno ad Andromaca, e la mette in guardia sui pericoli che incombono su Astianatte, rivelandole le intenzioni dei Greci (438-60). Consultandosi con un senex, che compare solo in questa scena della tragedia, Andromaca decide di far credere morto il piccolo Astianatte, e lo nasconde nel sepolcro di Ettore, apprestandosi poi ad affrontare Ulisse, venuto per farsi consegnare la vittima. Il confronto, di grande efficacia drammatica, vede i due antagonisti combattere una vera e propria battaglia, con le armi a loro disposizione: la forza della disperazione, ma anche l'incrollabile volontà di non arrendersi, per Andromaca, e la proverbiale astuzia per Ulisse. Solo alla fine, dopo un 89

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