Il piccolo Hans - anno XIV - n. 56 - inverno 1987

vincimento (tra i registi di primo piano chi non aveva o non sentiva di avere qualcosa da farsi perdonare - come Dmytryck e Elia Kazan - in materia di simpatie di sinistra, riuscì a tenersi fuori dalla mischia), si riprese a sfruttare il filone. Ne sortirono dozzine e dozzine di film «coreani», quasi tutti retorici e manierati, ora di taglio oratorio, ora d'impianto cronachistico tra cui bisogna segnalare per la loro anomalia almeno due titoli di Samuel Fuller: Corea in fiamme (1950) e I figli della gloria (1951). A poco a poco il rigurgito maccarthysta rifluì e fu riassorbito. Si ricominciò -ma con prudenza, come si conviene a un convalescente - a respirare. I sintomi della guarigione si avvertono già nel sospetto, equivoco, contradditorio ma suggestivo Da qui all'eternità (1953) di Zinnemann, anch'esso ricoperto di Oscar; nel diseguale ma potente I diavoli del Pacifico (1957) di Richard Fleischer. Con Corte marziale (1955), ambientato nei primi anni Venti, mediocre sul piano espressivo, ma eccitante su quello delle idee, Otto Preminger dibatte, con dialettica da dramma giudiziario, il problema della disciplina militare. Con la virulenza che gli era abituale arriva Robert Aldrich con Prima linea (1956) che se la prende non con la guerra, ma con chi la fa male. La politica corrompe le virtù del militare - è una delle tesi del film - come il denaro quelle dell'arte (Il grande coltello). Ma, tra le righe, Aldrich dice anche che, come il cinema, l'esercito è un mondo maledetto. Pur riflettendo la struttura della società di cui è l'emanazione e lo specchio, è retto da leggi particolari. Nell'inferno della guerra la lotta dell'uomo isolato contro i privilegi, l'avidità e la bassezza non può che concludersi col trionfo della morte. Con Uomini in guerra (1957), su sceneggiatura di Philip Yordan, Anthony Mann fa un passo avanti. Il suo è il primo e l'unico film hollywoodiano sulla guerra di Corea senza accenti apologetici, nemmeno indiretti. Ne è anzi, 187

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