Il piccolo Hans - anno XIV - n. 56 - inverno 1987

condurre a quei risultati liberanti e disinibitori che sarebbe lecito attendersi. Il paziente è in gara anche col tempo dell'analisi e la posta in gioco è solo la sopravvivenza. L'analisi sembra mantenerlo in vita (soprattutto per l'astinenza che egli ritiene essergli imposta e in cui concentra la sua libido), ma tutto è già accaduto e niente può più essere modificato. In analisi il paziente ci va come alla guerra, con disciplina e persino qualche entusiasmo, il suo intento principale sembra in ogni modo quello di svuotare tutta la sua vita amorosa onde lasciar sussistere il puro allarme di una «nevrosi da pericolo»,7 come a voler confermare la vecchia distinzione fra nevrosi che hanno un'etiologia sessuale e nevrosi che nascono da traumi o da choc bellici. Riconosciamo la modalità di una resistenza specifica: sfidare l'analista a provare le sue armi, quelle della psicoanalisi, nell'«unificare in un'unica concezione le due fattispecie apparentemente divergenti».8 Di fronte all'ipotesi che ho avanzato, mentre il primo tratto distintivo della lotta per la sopravvivenza scopre le condutture sotterranee a cui si àncora, lo psicoanalista non si sente poi tanto sicuro di poter essere garante che di analisi non si muore. In questo la sua posizione è assimilabile a quella di un giovane psichiatra che, prima di intraprendere la supervisione psicoanalitica, si era trovato a rispondere al figlio di un suo paziente che gli chiedeva di essere da lui curato insieme con il padre che, pur non potendolo per ovvi motivi accontentare, pensava tuttavia che anche con un altro medico egli avesse buone possibilità di «guarire». Il suicidio del ragazzo giunse presto sconvolgentemente, come l'epigrafe kierkegaardiana al sacrificio di Isacco, a rovesciare quella ottimistica previsione: la malattia era mortale. Il pericolo è evidente in questo tipo di analisi quando, - e mi riferisco al caso di una donna, madre di famiglia, ma abbastanza giovane da essere stata appena sfiorata dal18

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