Il piccolo Hans - anno XIV - n. 56 - inverno 1987

traverso l'alienazione della libertà al sistema politico, al disordine della storia delle società, non allo stato di natura. Il problema, sostiene Rousseau, è il deperimento dello stato come potenza che ha il soldato come suo simbolo. Lo stato-potenza provoca situazioni doppie: un territorio, in quanto soggetto alle regole della società civile, è mio, e, invece, territorio dello stato se si guarda allo stato come potenza. Attaccare uno stato è attaccare questa convenzione artificiosa, e il fatto che la pace interna sia garantita dal principe, conduce all'idea della indipendenza del principe: ciò che all'interno parla come forza della legge, all'esterno si manifesta come ragione di stato. «Non cerchiamo punto, scrive Rousseau, quello che si è fatto, ma ciò che si deve fare e rigettiamo le vili e mercenarie autorità che non tendono che a rendere gli uomini schiavi, cattivi e infelici». Ma come si configura il compito della ragione che voglia scindere il binomio stato-guerra? Kant che riflette sulla guerra, sulla pace e sulla storia, è il punto di incrocio di queste esperienze che si trovano sedimentate, secondo un particolare e originale equilibrio teoretico, nei suoi scritti storico-politici. Voce lontana ma radicale dell'esperienza illuminista e degli eventi della Rivoluzione francese, Kant considera la guerra un male, una malattia della vita sociale, accetta l'equazione stato-potenza-dispotismo poiché l'esperienza mostra che «i sovrani non sono mai sazi di guerre» e «si divertono» a provocare conflitti come fosse la festa del loro particolare privilegio, mentre i «cosiddetti uomini politici ricorrono ad artifici pratici e mirano a esaltare il potere dominante [...] sacrificando il popolo». E tuttavia gli stati, al di là di queste perversioni, sono unità culturali differenti (sarà il grande tema romantico) pofché hanno differenze di lingua e di religione. L'umanità non ha morfologie storiche identiche e non si dà all'esperienza come un fatto omogeneo. 162

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