Il piccolo Hans - anno XIV - n. 54 - estate 1987

gica quando la parola cosi s1 01v1ae aa se siessa. «L'immaginazione si può paragonare al sogno di Adamo», dirà Keats, «-si svegliò e trovò che era verità». Milton è ben più radicale di tanto: proprio perché la sua parola tiene la scena del paradiso, ad essa è vietata la metafora del paradiso. Non c'è una visione interiore, un paradiso della rappresentazione - una memoria - che offra alla favola un luogo verso il quale tendere, e al testo un'occasione per mettere in scena l'atto del proprio prodursi, come sarà per Coleridge in Kubla Khan. Il paradiso è lì, senza metafora; ma la parola che lo dice non può prenderlo dentro di sé. Non può esserlo, la parabola e il geroglifico di quel paradiso, altro che assumendo su di sé, e silenziosamente soffrendo, quella terribile lacerazione del non poterlo essere. Muore qui il teatro della presenza, e nasce l'idea moderna del testo come testualità, lavoro in progress. Costruzione mai definitiva, anche quando si tratta del testo di Shakespeare, il più grande dei moderni, il cui corpus sfigurato comincerà di qui a poco a subire un trattamento di restauro filologico assolutamente antichizzante. Ed è utile che tutto cominci col paradiso: che mentre la parola si colloca direttamente nel tema più arduo, che rende tutti gli altri soltanto altrettante approssimazioni ad esso - l'assoluta identità cioè del nome alla cosa o del sogno alla vita, quale solo in paradiso è data - senta anche subito e irreparabilmente il proprio tema sfuggirle. Tra il tema e la lingua si è aperta una vertigine: mai più il testo sarà, come è ancora quello shakespeariano per Milton, indistricabile congiunzione di natura e di storia; libro, e creatura vivente; marmo monumentale, e calore del cuore. Ed è quasi un'ironia che quel componimento, On Shakespear. 1630, fosse poi premesso al secondo in folio: un'impresa filologica, per quanto rudimentale, che viene nei versi di Milton implicitamente negata proprio nel suo esser filologia. 75

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