Il piccolo Hans - anno XIV - n. 54 - estate 1987

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica 54 estate 1987 Virginia Finzi Ghisi 5 Un passo nel giardino Mario Spinella 7 Due scorci su Lytton Strachey Tomaso Kemeny 31 «Molto rumore per nulla»: il sospiro, la calunnia, la lettera Paola Colaiacomo 57 «Il Paradiso qui» Ermanno Krumm 80 Le qualità di Hopkins: qualità di parole, qualità di cose Gabriele Frasca 117 Il «che cosa?» di Beckett Giuseppina Restivo 159 Dalla «Tempesta» al «Flauto magico»: modelli e proiezioni MINUTE Manuela Trinci 195 Notizie su Melanie Klein Paola Zaccaria 222 La critica letteraria americana tra Derrida e il femminismo

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Contardo Calligaris, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola. a questo numero hanno collaborato: Paola Colaiacomo, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Gabriele Frasca, Giuliano Gramigna, Tomaso Kemeny, Ermanno Krumm, Giuseppina Restivo, Mario Spinella, Italo Viola, Paola Zaccaria. redazione: Via Nino Bixio 30, 20129 Milano, tel. (02) 2043941 abbonamento annuo 1987 (4 fascicoli): lire 35.000, estero lire 52.500 e.e. postale 33235201 o assegno bancario intestato a Media Presse, Via Nino Bixio 30, 20129 Milano Registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano Fotocomposizione: News, via Nino Bixio 6, Milano Stampa: Litografia del Sole, Albairate (Milano)

Un passo nel giardino Un passo nel giardino all'inglese. Un doppio movimento sul quale ci siamo soffermati, regola l'apparato psichico. L'instress e l'inscape. Inscape è la risposta della forma che è colta all'improwiso in ciò che circonda il soggetto. Macroscopicamente, il luogo della fobia lo è per l'apparato psichico quando da una città, da una piazza, da una casa, si ritaglia una mappa che ovunque, in diversa misura riproduce la prima rappresentazione esterna dell'apparato psichico di fronte al soggetto. Instress è quanto permette che ciò awenga. Di esso rimane un piccolo vortice, un cerchio che si chiude, una forza immanente al luogo della fobia. È ciò che forza la vita nelle forme, e tra queste ci si awentura facendo uso del disegno. Grazie a questi due movimenti la natura viene solcata dalle stesse vene del soggetto, e questi si premura di configurarla, delimitarla, articolarla a partire dalla posa di canali e di tubi. A partire dai giochi dei bambini, dall'aprirsi nel piatto con il cucchiaio sentieri di pastina o di uovo al burro, dal creare fili di grani di riso o di stelline sul polso e sul dorso della mano, al riaffiorare di questo «complesso» nella latenza, la forma del tubo è la forma primaria1 con cui un foglio di carta ripiega i suoi lembi fino a riunirli. Una superficie si fa solido, la giraffa-foglio spiegazzato del piccoloHans, libera un animale vero. �

La natura si anima e, ancora un passo, ed entriamo nel giardino che abbiamo creato. Ora il giardino ha più dimensioni, e diversi aspetti. L'acqua lo attraversa, le fronde lo catalogano, i ruderi di statua lo riportano indietro nel tempo e arricchiscono il suo sottosuolo di archi misteriosi. Ma nella natura è entrato il nostro lapsus. Questo meccanismo, più banale, e apparentemente superfluo rispetto agli altri due che regolano l'apparato psichico, è invece ciò che, con le statue, testimonia dell'antichità del terreno. Lapsus è l'apparire accidentale, e frettoloso, di un moto più ampio, lento e silenzioso, che è la pulsione di morte. Nuovi giardini si compongono. Il grande fungo di Chernobyl, e l'abitudine a frequentare la morte inciampa nel più facile dei meccanismi.L'acqua fredda della Manica, e il traghetto inglese vi affonda, nel piccolo vortice, ottant'anni di psicoanalisi passati inawertiti, nella consuetudine a tralasciare ogni giorno la cura di un particolare di più. Il lapsus aderisce a un nuovo ordine, la sera, aprendo la finestra, se ne coglie nella lucentezza l'inscape della catastrofe, e da lì ci minaccia. Virginia Finzi Ghisi NOTE 1Cfr. Finzi S. , Seminario 1986-87: «Presentazione di casi. Evoluzione della clinica freudiana dagli studi sull'isteria a 'Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile'». 6

Due scorci su Lytton Strachey I «Who is my Pa?» Ka is my Ma, But who is my Pa? Al termine di una giornata fitta di tensioni e di mutamenti di umore, «Lunedì 26 giugno 1916», Lytton Strachey e i suoi amici, in una remota fattoria del Sussex - dove due di loro, il pittore Duncan Grant e lo scrittore David Garnett, obiettori di coscienza, svolgevano, come improbabili contadini, il servizio civile sostitutivo - si danno al passatempo scherzoso di costruire versicoli idioti (idiotic rhymes) sulla loro comune conoscente Ka (Katherine) Cox e su una sua complicata vicenda amorosa. Tra i presenti vi era anche H.T.J. Norton (un matematico di Cambridge), cui Strachey dedicherà, due anni più tardi, i saggi sugli Eminent Victorians che gli daranno improvvisa fama e successo. E Norton spiazza tutti con il distico citato in esergo: "Ka is my Ma / But who is my Pa?": un interrogativo che potrebbe presiedere, almeno in una visione di scorcio, alla definizione di molti dei caratteri del singolare gruppo di intellettuali inglesi tra le due guerre che va sotto il nome di «Bloomsbury»; ma che in modo certo del tutto particolare si attaglia in prima persona a Giles Lytton Strachey. Non tanto, vorrei subito sottolineare, a causa dell'ipotesi pubblicamente avanzata più tardi da un'«amica di famiglia» (Mary Stocks) che Lytton fosse in realtà non uno Strachey, ma figlio di un altro amico di famiglia (e particolarmente della madre, Jane Maria Grant), quel 7

Lord Lytton, governatore e viceré dell'India, suo padrino, da cui Giles trasse il secondo nome con il quale ben presto tutti lo chiamarono; un'ipotesi (Holroyd, 69.70 n.) poco attendibile, anche se Lord Lytton poté rappresentare, per Lady Strachey, un modello ideale su cui configurare l'educazione e il «destino» dei figli maschi, e di quello in specie che il nome prescelto sembrava, in tal senso, voler privilegiare. Oltre che uomo di Stato, altissimo funzionario della Corona, Lord Lytton era anche poeta. Per di più - scriverà di lui Lady Strachey - «era estremamente non-convenzionale e, poiché non era stato formato in una scuola di illustre tradizione, né nella consueta società inglese, era del tutto incapace di comprendere l'importanza attribuita alle convenzioni dall'ordinario pubblico inglese» (Holroyd 70). Un giudizio che potrebbe anche attagliarsi a Giles Lytton Strachey: ma con una variante, e non di poco conto: che proprio il conoscere le convenzioni gli dava il gusto sottile di violarle o quanto meno di metterle a nudo e di tesservi intorno la ragnatela della sua ironia. Negli ascendenti e nei parenti di Lytton il servizio in India era stato piuttosto frequente: ma è da ritenersi che egli pensasse -più o meno direttamente - al viceré-padrino quando, dovendo scegliersi un tema per la dissertazione che avrebbe dovuto aprirgli le porte per l'insegnamento a Cambridge, fu a Warren Hastings, primo governatore generale delle Indie britanniche, che si dedicò, nell'intento di districarne la controversa figura dai sospetti che il processo intentatogli aveva, malgrado la piena assoluzione e riabilitazione, lasciato dietro di sé negli storici ottocenteschi, e, prima di tutto, in Macaulay, cui Lytton non lo perdonerà mai. Nella Introduzione alla dissertazione (Holroyd e Levy, The Shorter Strachey)1 lo accusa di aver scritto su Hastings, sì «un capolavoro; ma un capolavoro di immagina8

zione, non di storia. Alla luce chiara della ricerca imparziale, lo spettro affascinante che Macaulay ha evocato svanisce nell'aria, o meglio riacquista il suo posto, una volta per tutte, tra le figure malvagie di un romanzo. Ma i ricercatori imparziali hanno ben poco di cui vantarsi. Per ogni persona che vada a leggersi i risultati delle loro ricerche, ve ne sono cento che leggono Macaulay. I libri, in generale, vengono letti per il.piacere che offrono, e il condimento della menzogna aggiunge sempre piacere. Macaulay trionferà sino a quando non sorgerà un grande maestro dell'arte dello scrivere, che vorrà scegliere di affrontare gli eventi della storia dell'India con il fascino della letteratura, e saprà rendere la verità ancora più attraente della invenzione romanzesca. Pensa forse a se stesso il giovane studioso e scrittore (ha venticinque anni, ma non manca certo di ambizioni)? Affrontare vite e vicende realmente accadute con l'arte di un «maestro dello scrivere», creare o rinnovare quella che più tardi Virginia Woolf chiamerà l'«Arte della biografia», sarà, dopo una non lunga esperienza di critico letterario, l'impegno della sua non lunga e complicata esistenza. Ma torniamo a quel 26 giugno 1916. Lytton Strachey ha già trentasei anni compiuti. Dopo il brillante esordio negli anni universitari, durante i quali fu segretario degli elettissimi «Apostoli» di Cambridge, dopo l'umiliazione del mancato incarico accademico, anche le sue prime prove di critico letterario, raccolte nel 1912 nel volume Landmarks in French Literature, erano, nell'insieme, apparse piuttosto deludenti; e non tanto in riferimento al loro esito pubblico, quanto per il giudizio, esplicito o sottinteso, dei suoi sodali di Bloomsbury. La mediocrità, anche se aurea, non era fatta per Lytton. Enfasi a parte, qualcosa della lettera a Leonard Woolf, scritta dopo lo choc della sua bocciatura ad opera degli «asini» di Cam9

bridge, aveva nutrito l'animo del giovane «apostolo»: «Noi siamo - e per molti aspetti - come gli Ateniesi del1'età di Pericle. Siamo i misteriosi sacerdoti di una nuova e stupefacente civiltà. [...] Sarà bello vivere i nostri giorni in una perpetua affermazione della nostra magnificenza» (Holroyd 228). Una lettura possibile, questa, delle pagine dei Principia ethica di George Edward Moore, l'allora giovane filosofo (era nato nel 1873) che tanta influenza aveva già avuto ed avrà sugli «Apostoli» di Cambridge, e, più tardi, su «Bloomsbury». Più, certo, che l'impostazione metodologica e epistemologica del suo pensiero, ciò che aveva suscitato l'entusiasmo di Strachey e dei suoi amici erano le conclusioni degli ultimi due capitoli dei Principia: l'affermazione che «Ciò che è di gran lunga di maggior valore- per quanto si sappia e si possa immaginare- è costituito da quegli stati della coscienza che si possono approssimativamente definire come i piaceri dei rapporti umani e la fruizione dei begli oggetti [...] Gli affetti personali e la capacità di apprezzare ciò che è bello nell'Arte o nella Natura sono per se stessi dei beni». È facile scorgere in questa impostazione il «programma di vita» che è sotteso, pur nella diversità dei caratteri e delle vicende, all'universo di «Bloomsbury», un universo del quale Strachey, specie nei primi anni, fu forse il principale artefice, permeandolo di quella intensa passione per i rapporti umani e per la ricerca del bello che egli aveva, sulla scorta di Moore, posto al centro di ogni possibile «bene». Ma quel lunedì, 26 giugno 1916, tutto ciò sembrava enormemente lontano. La guerra aveva, affettivamente e intellettualmente, coinvolto Bloomsbury e i loro amici: pacifisti, nel loro insieme, obiettori di coscienza, in qualche caso persino sottoposti a processo per il loro atteggiamento, molti di loro- e Lytton Strachey tra questi - vive10

vano intimamente le notizie delle morti e delle stragi: «Il vero orrore - aveva scritto a un'amica il 21 agosto 1914 (Holroyd 575) - è che l'Europa non è ancora civilizzata neanche a metà, e che le nazioni pacifiche non sono abbastanza forti da tener quiete le altre». Dov'era la «nuova e stupefacente civiltà» vagheggiata dieci anni prima? Virginia Woolf, che avrà sempre un posto privilegiato nei suoi sentimenti anche dopo la sfumata ipotesi di un matrimonio tra loro, non si era ancora ripresa del tutto dalla gravissima crisi che nel settembre 1915 l'aveva portata, a causa di un tentato suicidio, alle soglie della morte. The Voyage Out, il suo primo romanzo, pubblicato nello stesso anno, aveva riscosso un'eco modesta; come del resto la raccolta di saggi critici sulla letteratura francese di Lytton, e il romanzo di Leonard Woolf, The Wise Virgins. Ormai poco meno che quarantenni, vi era motivo di dubitare che le lettere avrebbero dischiuso per loro le vie del successo e della notorietà. Per Lytton e Virginia ciò si dimostrerà falso; Leonard prenderà altre strade. Ma intanto l'interrogativo sul proprio reale talento incombeva: anche se Strachey aveva praticamente finito di scrivere i saggi che, raccolti con il titolo Eminent Victorians gli daranno, nel '18, l'auspicata celebrità: al momento, tuttavia, egli poteva soltanto sperarlo. Non senza un certo scetticismo, e non di maniera. Malgrado i molti tentativi poetici, il racconto epistolare Ermyntrude and Esmeralda, e il dramma A Son ofHeaven, scritto nel '12, ma rappresentato soltanto nel 1925, più per la fama ormai raggiunta dall'autore, forse, che per le sue intrinseche qualità teatrali, di una cosa Lytton Strachey era ormai sempre più consapevole: di una sua mancanza, come soleva riconoscere, sia pure malinconicamente, di «creatività», di inventiva poetica, o narrativa. Dedicarsi alla critica era una via d'uscita: ma certo una «porta stretta», un ripiego. Strachey ce lo dice a tutte lettere proprio all'inizio di Monday lune 26th 1916: 11

«Avvicinarsi alla vita! Guardare alla vita non attraverso gli occhi di poeti e Romanzieri, con i loro accorgimenti per abbellirla, o il loro realismo che la seleziona, ma semplicemente come uno, di fatto, la guarda, via via che essa si svolge, con la sua immediatezza, e le sue molteplicità, e le sue intensità: vivida e completa! Riuscire a farlo! Riuscire a farlo anche se soltanto con un suo frammento - non più di una singola giornata - comprendere in modo assoluto gli eventi di un singolo giorno, e di un giorno non eccezionale; senza dubbio ciò potrebbe essere non meno meraviglioso di un romanzo, e persino di una poesia, e - forse! - anche più illuminante. Se soltanto lo si potesse fare! Ma, naturalmente, non si può. Non si ha né la capacità, né la mera possibilità fisica di mettere in catene quella successione quasi infinita; la propria memoria è confusa; e poi le cose che uno ricorda non può, non osa... ---' no! uno può giungere soltanto molto vicino a esse in una segretezza del tutto peculiare; ma tuttavia... rimane molto che uno può forse, in modo positivo, fissare, dopo tutto!». È evidente che Strachey non pensa a un diario, per quanto minuzioso esso possa essere; e tanto meno alle modalità narrative dell'Ulisse joyciano, la cui pubblicazione per i tipi della "Hogart Press di Virginia e Leonard Woolf aveva pure sostenuto, ma che avrebbe incluso nella categoria del «realismo» che «seleziona». Il suo intento, a giudicare almeno da questo scritto, e dall'altro testo autobiografico, letto anch'esso al «Memoir Club» dei bloomsburiani, Lancaster Gate, ove rievoca la vita familiare dell'infanzia, appare piuttosto quello di mettere a fuoco un'atmosfera, uno stato d'animo, e le loro molteplici sfumature, variazioni modificazioni. Qualcosa, a ben guardare, che lo avvicina semmai a due scrittrici, Katherine Mansfield e Virgina Woolf che facevano parte, sia pure a un grado assai diverso di intimità e di frequenta12

zione, della sua cerchia - e forse potremmo dire, del «cerchio magico» di questo gruppo di intellettuàli e scrittori inglesi tra le due guerre. Strachey, che ha portato con sè H.T.J. Norton, il matematico che è in quel momento il suo partner, è dunque a Wissett Lodge, nel Suffolk, ospite di Vanessa Stephen, sposata Bell, che convive con il pittore Duncan Grant; con loro è anche David Garnett, che, con Duncan, presta servizio civile come frutticoltore. Un'altra breve tappa nel girovagare di Strachey, prima che Dora Carrington - con l'aiuto finanziario di un gruppo di amici - riuscisse a dargli, nel gennaio 1918, una confortevole, anche se relativa, stabilità a Mill House, nel Berkshire. Strachey ha l'impressione, questa volta, di non essere un ospite del tutto gradito. Passata l'euforia dell'abbondante colazione, si affaccia alla sua mente la musoneria di Vanessa, la sera prima, e il suo scatto: «Santo cielo, non potresti lasciarmi sola con Duncan un momento! Sarà mai possibile?». Certo, erano stati gentili: ma proprio abbastanza gentili? E lui, forse, se n'era stato troppo per conto suo, o con Norton. E poi era a disagio. Perché? Forse gli dava fastidio il loro modo di vivere da sposati? o forse il fatto che non erano sposati? E poi non aveva voglia di andarsene (e dove?): ma non capiva bene perché. Ed ecco un'immagine folgorarlo: «la visione di quel giovane postino con i bei capelli, il piacevole aspetto campagnolo, che mi aveva sorriso dicendomi 'Buona sera, signore' quando mi aveva superato in un lampo con la sua bicicletta». Vi era da favoleggiare un'«avventura»: c!era tempo sino all'indomani. Intanto, la lettera dell'amica Lady Ottoline Morrell, che aveva ricevuto, ma non ancora aperto: conteneva, proprio nel giusto momento, un invito a raggiungerla nella casa di Garsington: «un sollievo, giacché se dovevo andar via, non era male avere un qualche posto dove andare». 13

Una pausa di lettura, e di nuovo l'immagine del postino, «la deliziosa peluria della sua guancia». Ma bisognava comunicare a Vanessa la decisione di partire. Chi era, poi, Vanessa? Bella, bruttina? «Come la conoscevo bene! Ma come poco, pochissimo, anzi!», «Se solo avessi potuto gettarmi nelle sue braccia!». Invece se ne torna a leggere il giornale. Vi è l'annunzio di un incontro di pugilato e la foto di un pugile, che sembra molto bello: perché non andarci? Ma è la sera stessa: potrebbe fare un salto a Londra, ma ne vale la pena? Più tardi, ad ogni modo, chiederà a Duncan Grant come sono questi incontri, come si fa ad andarci. C'è anche un articolo sulla Cecoslovacchia: a trentasei anni si rende conto di non saperne nulla, e sì che «lui, e quelli come lui, si suppone che siano persone colte!». Meglio fare una passeggiata, dopo il tè, dietro il vago stimolo di un giovane carrettiere «che sembrava bello». Nessuna traccia del carro, in compenso il «puro piacere e la bellezza della giornata estiva» che gli dà un senso di perfetta felicità: tanto perfetta da fargli desiderare di morire in quel momento, seduto sull'erba, con la schiena appoggiata a un mucchio di terra: «L'abbagliante felicità che invadeva, onda dietro onda, il mio animo, era così intensa quanto può esserlo una conversione religiosa... Qualcosa di stranamente importante sembrava investire e fondere in un'unità la scena, il momento, e il mio stato d'animo». Si è fatta l'ora, tuttavia, di tentare l'incontro con il postino: tempi, percorsi, pretesti dell'approccio vengono meticolosamente previsti e descritti con affettuosa autoironia. Tanto più che il postino - quando finalmente appare - non è più quello del giorno prima. Si va facendo sera. Nel giardino, Lytton incontra Bunny. Camminano su e giù, imbarazzati, parlando di ortaggi: ma viene il momento dell'intimità, di confidare all'amico (ma non lo dica, per carità, a nessuno, a Vanessa, a 14

Grant, a Ottoline, rammemorerà più tardi David Garnett) i suoi confusi sentimenti per Carrington, l'impressione di essere sgradito agli ospiti. Ma quando mai? Tutti gli vogliono molto bene, e lo chiamano affettuosamente il vecchio gentiluomo, qualcosa di simile, aggiunge Bunny, al Principe delle tenebre. Un caldo abbraccio - non scevro di una punta di sensualità - tra i due amici; e di nuovo in casa a scherzare, tutti insieme, su Ka e i suoi amori: «who is papa?». E chi è questo Lytton Strachey che Virginia Woolf chiama talvolta «papa», che fa della biografia un'arte ma ci fa rimpiangere, se leggiamo pagine come queste, di essersi rifiutato al narrare - di sé, di una qualsiasi fiction? II Una lettera di Freud Racconta Michael Holroyd, l'autore della monumentale biografia di Lytton Strachey, che nell'esplorare le carte lasciate da lui, e gelosamente, anche se disordinatamente conservate dal fratello James, ebbe la fortuna di poter compiere un sopralluogo nel seminterrato della casa una volta abitata dagli Strachey a Londra, 51 Gordon Square, e di trovarvi, oltre alla tesi di dottorato di Lytton, e molti altri documenti, «una lettera nella illeggibile scrittura gotica di Sigmund Freud· , scritta il giorno di Natale del 1928, che esponevamolto dettagliatamente i suoi pensieri a proposito di Elisabeth and Essex di Lytton.» Vero che sia - o invece una innocua drammatizzazione del biografo - egli aggiunge che proprio quel giorno erano arrivati gli addetti alla pulizia per bruciare tutto; e che solo a fatica riuscì a convincerli di lasciarlo cercare e portar via quanto meritava di essere salvato; e, tra l'altro, la lettera, che sarà pubblicata nella seconda edizione dei 15

Briefe 1873-1939, 1968. Poiché ne manca una traduzione italiana, a parte alcuni brani in Sigmund Freud - Biografia per immagini, vale forse la pena di renderla qui per intero, facendola seguire da qualche breve commento. Vienna IX, Berggasse 19, 25 dicembre 1928 Caro signore, 16 questo Natale mi ha recato, come il dono più gradito e inatteso la sua tragica storia di Elisabeth ed Essex. La ringrazio di cuore per il suo regalo e · mi spiace di non poterlo ricambiare con qualcosa di mio. Sono vecchio, non mi sento in forze, e probabilmente non produrrò nient'altro. Conosco tutte le sue precedenti pubblicazioni, e le ho lette con grande piacere. Ma si trattava di un piacere essenzialmente estetico. Questa volta mi ha toccato più profondamente, giacché lei stesso si è inoltrato in maggiori profondità. Lei riconosce, e questa è una cosa che spesso lo storico facilmente trascura, che è impossibile comprendere il passato con certezza, giacché non possiamo indovinare le motivazioni degli uomini e l'essenza del loro animo, e pertanto non possiamo interpretare le loro azioni. La nostra analisi psicologica non è sufficiente neanche nei confronti di coloro che ci sono vicini nello spazio e nel tempo, a meno che non possiamo renderli oggetto di anni della più stringente osservazione; e anche in questo caso essa si arresta di fronte alla incompletezza della nostra conoscenza e alla rozzezza della nostra sintesi. Così nei riguardi di persone del passato ci troviamo come di fronte a sogni dei quali non ci è stata fornita alcuna associazione, e solo profani potrebbero esigere da noi l'interpretazione di sogni come questi. Lei, tuttavia, come storico, dimostra di essere imbeyuto dello spirito della psicoanalisi. E, malgrado queste riserve, lei si è accostato a

una delle figure più notevoli della storia del suo Paese, ha saputo farne risalire il carattere alle impressioni della fanciullezza, ne ha colto le sue più segrete motivazioni con audacia e insieme con discrezione. E perciò possibilissimo che sia riuscito a compiere una ricostruzione corretta di quanto realmente è avvenuto. Molti anni fa, mentre me ne stavo davanti al sarcofago di questa regina, a Westminster, mi vennero in mente alcune riflessioni. Desidero fargliene parte, se mi promette di non trattarle con troppo disprezzo. Pensavo che sia stata Elisabetta - donna senza figli - a suggerire a Shakespeare il carattere della sua Lady Ma-· cbeth, della quale così poco poteva trovare nelle fonti storiche. Quando nel quinto atto, scena quinta, prorompe il grido «The queen is dead», al londinese di quel tempo può essere stato suggerito il ricordo di quanto recentemente aveva udito la stessa notizia; sicché in tal modo l'identificazione delle due regine si faceva per lui immediata. Notizie sulla depressione e il rimorso di Elisabetta dopo l'esecuzione di Essex possono avere offerto al poeta la materia per la raffigurazione della torturata coscienza di Lady Macbeth. In realtà Elisabetta aveva anche mandato a morte un'ospite che si era affidata a lei (Maria Stuarda) e questo delitto poteva sovrast_are su quello compiuto nei confronti di Essex. E certo possibile - pensavo - che il rendersi visibile della storia contemporanea attraverso l'elaborazione di materiale leggendario, da parte di Shakespeare, abbia costretto a scindere il carattere di Elisabetta in due persone, Macbeth e Lady Macbeth; ma esse si rafforzano l'una con l'altra e mostrano in tal modo di essere in realtà un solo essere umano. Nella coppia dei Macbeth viene raffigurata l'indecisione di Elisabetta ma anche la sua durezza e il suo rimorso. Se davvero ella era un'isterica, secondo la diagnosi di Lytton Strachey, forse quel grande psicologo [Shakespeare] non si sbagliava quando la scisse in due personaggi. 17

Il mio interesse per queste riflessioni si è di nuovo risvegliato quando venni a conoscere la supposizione di Thomas Looney, che Shakespeare maschera il 17° Earl di Oxford, Edward de Vere. Ho sempre riso alla ipotesi Bacone, ma devo ammettere che il libro di Looney mi ha fatto una grande impressione. Naturalmente, sono troppo ignorante per prevedere che cosa coloro che sono esperti di quei tempi possono avanzare contro questo nuovo candidato al nome di Shakespeare. Per una persona del genere forse non dovrebbe essere difficile stabilire che questa possibilità non esiste. Io non ne so nulla ma mi piacerebbe saperlo. In ogni caso in de Vere si può trovare molto di Essex. Egli aveva un carattere ugualmente infiammabile e incontrollabile, e fu coinvolto in difficili conflitti vitali. Di famiglia altrettanto nobile quanto quella di Essex, e come lui fiero di ciò, esprimeva come lui il tipo del nobile autoritario. Inoltre egli appare senza dubbio, in Amleto, come il primo nevrotico moderno. Quando era giovane, la regina aveva flirtato anche con lui; e forse se sua suocera Lady Burghley non lo avesse difeso con tanta energia, avrebbe avuto un destino anche più simile a quello di Essex. Era certamente amico intimo di Southampton. Il destino di Essex non può essergli stato indifferente. Ma basta: ho proprio l'impressione di dovermi davvero scusare con lei per questa seconda parte della mia lettera. Con ammirazione, il suo devoto Freud Da una nota apposta alla traduzione inglese di questa lettera, pubblicata in appendice a Bloomsbury/Freud. The letters ofJames and Alix Strachey 1924-1925, si apprende che James l'aveva tradotta per il fratello: ma non risulta che Lytton vi abbia risposto. Non sorprende invece che Freud sia stato sollecitato a scriverla , mentre non lo aveva fatto in occasione dei precedenti libri di Lytton, che pure dichiara di aver letti. 18

Egli stesso ne dà la motivazione: in Elisabeth and Essex aveva infatti colto il segno di una affinità tra il tentativo dell'autore di «inoltrarsi in maggiori profondità» e il proprio stesso lavoro. Ovviamente, soltanto un'affinità: lo storico che tenta di penetrare la psiche e i comportamenti di «persone del passato», viene a trovarsi, necessariamente, nella ipotizzata situazione di un analista che conosce sì il contenuto manifesto dei sogni dell'analizzante, ma, in assenza di ogni associazione da parte di questo, non è, metodologicamente, in grado di intepretarli. Ma quando Freud sottolinea di aver trovato nello Strachey di Elisabeth and Essex uno storico «imbevuto» (durchtriinkt) dello spirito della psicoanalisi, per cui al «piacere estetico» che i suoi precedenti libri sempre gli avevano dato, si aggiunge un interesse «più profondo», egli coglie con estrema finezza un reale punto di differenziazione tra questo e i libri precedenti, Eminent Victorians e Queen Victoria. Già in essi, a ben guardare, non è difficile scorgere da parte dell'autore, un punto di vista che può accostarsi, anche se genericamente, alla psicoanalisi. Leggiamo infatti, nella prefazione a Eminent Victorians, a proposito della sovrabbondanza di materiali sull'Età vittoriana: Non è con il metodo diretto di una narrazione scrupolosa che l'esploratore del passato può sperare di dipingere quell'epoca singolare. Se ha saggezza, adotterà una strategia diversa. Attaccherà il suo soggetto in luoghi insospettati, si attaccherà ai fianchi, o al dorso; punterà all'improvviso un proiettore rivelatore entro oscuri recessi, sinora non divinati. Trarrà a galla, dal grande oceano di materiali, qua e là andando sotto la superficie, una piccola sonda che recherà alla luce del giorno, da quelle lontane profondità, alcuni piccoli 19

campioni, che dovranno essere esaminati con minuziosa curiosità. Un metodo cui Strachey rimarrà fedele anche nella biografia della Regina Vittoria, ma che in Elisabeth and Essex si colora di un più diretto apporto di una tematica collegata alla psicoanalisi, e con l'esplicito e palese interesse nei suoi confronti. Quali che ne possano essere i risultati, questo interesse investe di una tonalità nuova non solo la scelta dei prelievi, ma il metodo stesso della narrazione, che acquisisce-e anche questo ha a che vedere con il metodo di esposizione di Freud-un forte elemento di drammatizzazione, o teatralizzazione, un procedimento per "scene" privilegiate e spesso in sé conchiuse. Di più: talvolta queste "scene" sembrano interrompere il filo della narrazione-è il caso, per esempio, della vicenda dell'ebreo portoghese Ray Lopez, medico della Regina, accusato di connivenza con il nemico spagnolo, o addirittura di aver cospirato per uccidere Elisabetta, e condannato a morte - ma contribuiscono potentemente a dar conto di un'atmosfera di sospetti e di crimini della quale, in ultima analisi, Essex fu vittima. Al pari di Freud, anche Virginia Woolf coglierà questa differenza tra Elisabeth and Essex e gli altri libri di Strachey: ma per trarne, al contrario di lui, un giudizio severamente limitativo. Già nel suo diario, in data 28 novembre 1928, ne aveva scritto, a commento del fatto che, nel corso di una serata per altri versi brillante, Lytton aveva silenziosamente lasciato la compagnia. Altre volte Virginia aveva sofferto di simili gesti e comportamenti del suo amico ·più caro, colui che «aveva amato e amava ancora»: ma si sorprende, in questa occasione, di non avvertire lo stesso dispiacere di altre volte, il suo desiderio che Lytton non si assentasse. Perché mai? si domanda; e risponde a se stessa: 20

Ma ora quest'uomo scrive Elisabeth and Essex; e io penso: bene, se egli può squadernarci davanti, dopo anni di sforzi, una cosa così - questo libro allegramente superficiale e puttanesco - allora può andar via o restare come gli pare e piace. La sua disapprovazione non mi tocca più. E benché la gelosia sia uno dei miei sprezzabili vizi, la gelosia della fama di altri scrittori, sebbene sono (e penso che tutti noi lo siamo) segretamente compiaciuta di trovare che quello di Lytton è un brutto libro, mi sento anche depressa. Se dovessi analizzarmi, la verità è che ritengo che il piacere è meschino, e tuttavia non è né profondo né tale da darmi soddisfazione; nell'intimo si sarebbe provato un vero piacere, anche se una sofferenza superficiale, se Elisabeth and Essex fosse stato un capolavoro. Sì, io lo avrei provato - giacché ho una mente che sa assimilare in maniera del tutto spassionata e sa tenersi lontana dalla mia vanità e dalle mie gelosie letterarie; e questo avrebbe reso giustizia a un capolavoro. Ieri sera, insieme con questi miei sentimenti, vi era anche una strana insoddisfazione personale per il fatto che Lytton, che ho amat_o e amo, possa avere scritto un libro del genere. E una riflessione sul mio gusto: è così fragile, così superficiale; ma Lytton, di per se stesso, non lo è affatto. Non rimane che accusare il pubblico, e i Carringtons e i giovani. E si rispolvera la figura di un Lytton claustrale, isolato, invalido, che sferza i fianchi del linguaggio e lo sospinge ad uno schiumante galoppo, mentre la povera bestia è solo bolsa e acciaccata. Un giudizio, forse, tanto più severo, in quanto Virginia dopo Eminent Victorians e Queen Victoria, si aspettava, da Lytton, un altro «capolavoro», come aveva scritto a Clive Bell al principio dell'anno (31 gennaio 1928), esprimendo i suoi dubbi sugli articoli che Strachey andava pubblicando, ma aggiungendo «ho ogni ragione di supporre che il suo Elisabeth è un capolavoro». E di questa delusione 21

ella soffriva, perché, in certo modo aveva creato un'ombra nei suoi rapporti con Lytton: «Come adoro Lytton! a parte i suoi atteggiamenti altezzosi... E tra noi si leva anche lo spettro di Elisabeth. Con la sensibilità di un autore egli sa ciò che io non posso negare; e non mi vuol chiedere niente; e così parliamo di inezie» (Lettera a Vita Sackville West del 15 febbraio 1929). Solo dopo la morte dell'amico Virgina Woolf esprimerà pubblicamente il suo dissenso da questo libro, nell'articolo sull'Arte della biografia (1938), per una buona metà dedicato a Strachey, dopo un'ulteriore rilettura di Elisabeth and Essex. Ma lo farà cercando di sceverare le ragioni «teoriche» del «fiasco» di Strachey: la povertà delle fonti, la «impossibile» ambizione di supplire a questa mancanza per forza di invenzione, un'ambizione che travalica - secondo Virginia Woolf - i limiti della biografia: «In Vittoria egli aveva trattato la biografia come una tecnica; si era sottomesso ai suoi limiti. In Elisabetta trattò la biografia come un'arte; disprezzò i suoi limiti». Quasi parafrasando il pensiero supposto di Lytton Strachey, il suo non nascosto desiderio di cimentarsi con la letteratura di fiction, di invenzione, la Woolf continua: Non avrebbe potuto la biografia produrre qualcosa dell'intensità della poesia, qualcosa dell'eccitamento del teatro, e mantenere anche le virtù particolari che appartengono al fatto - la sua realtà suggestiva, la sua creatività.... Tuttavia la combinazione si mostra impraticabile; fatto e finzione si rifiutarono di mescolarsi... C'è un senso di vuoto e di sforzo, di tragedia senza crisi, di personaggi che si incontrano ma non cozzano. Il biografo ha l'obbligo di fondarsi su fatti controllabili da altri. «Se egli inventa fatti come li inventa un artista - fatti chenessunaltropuòcontrollare-e tentadicombinarli 22

con fatti dell'altro tipo, essi si distruggono a vicenda». Si può dar torto o ragione alla Woolf, sia sul giudizio di merito, sia sulla motivazione di carattere generale che ella tenta di dargli. Si possono anche spiegare le ragioni della sua presa di posizione con il peso che sulla sua concezione della biografia ebbe l'immane lavoro compiuto in questo campo da suo padre, Leslie Stephen. Si può fare riferimento agli accorgimenti con i quali «inventò» le biografie di un'altra Elisabeth, la poetessa Elizabeth Browning, ingegnosamente mediata, spostata, su quella del cane Flush, o dell'amica Vita Sackville West fatta metaforicamente rivivere nel personaggio di Orlando. Si può infine ripercorre il suo travaglio di fronte all'impegno di scrivere la biografia di Roger Fry- e dubitare, a paragone degli altri libri di questa grande scrittrice, dei risultati conseguiti. Rimane tuttavia il sospetto - o quanto meno l'ipotesi tutta da verificare qualora sia davvero verificabile - che siano state proprio - almeno tra le altre - le ragioni addotte da Freud per motivare il proprio interesse a influire sul suo così drastico giudizio negativo. Pur vissuta in un ambiente - e basta pensare a James Strachey, fratello di Lytton, e alla moglie Alix, tra i primissimi psicoanalisti inglesi, ma non solo a loro - che con la psicoanalisi era direttamente implicato, ella non nascose mai la propria diffidenza - che era forse inquietudine - verso questa dottrina. Una diffidenza che forse, più che con motivazioni culturali, aveva a che fare con la problematica del suo stesso fragile vivere. I curatori del carteggio tra James e Alix, Perry Meisel e Walter Kendrick, riferiscono (traendole dal libro di Joan Russell Noble, Recollections ofVirginia Woolf, New York, Morrow, 1972) di un certo stupore di James Strachey di fronte al fatto che Leonard Woolf non avesse insistito presso la moglie Virginia perché si rivolgesse, in conseguenza dei suoi collassi psichici, a uno psicoanalista. L'o23

pinione di Alix, nei riguardi della «reticenza» di Virginia e di Leonard era che L'immaginazione di Virginia, a parte la sua creatività artistica, era così intrinsecamente connessa alle sue fantasie - e, in verità, alla sua follia - che bloccare la follia avrebbe potuto significare bloccare anche la sua creatività. A me sembra che l'opinione di Leonard, se davvero si comportò così, era del tutto ragionevole. Può essere preferibile essere folle e creativo che affrontare un trattamento psicoanalitico e diventare una persona ordinaria» Diverso l'atteggiamento di Lytton Strachey: «egli lesse ampiamente - continuano Meisel e Kendrick - Freud e applicò del tutto consapevolmente metodi freudiani nel suo ultimo libro, Elisabeth and Essex», e, significativamente, volle dedicarlo a James e Alix Strachey. A loro, del resto, si era rivolto, per interrogarli su una eventuale patologia della regina Elisabetta, il suo presun­ . to vaginismo. Dalla descrizione - molto tecnica - che Alix gliene aveva fatto, aveva poi tratto - accanto a quelli politici - un possibile argomento per il rifiuto di Elisabetta al matrimonio: 24 La cruda storia di una malconformazione può essersi originata da un fatto più sottile, ma non meno vitale. Una ripugnanza profonda per il cruciale atto del coito può produrre, in vista di questo, una condizione di convulsione isterica, cui, in certi casi, si accompagna un'acuta sofferenza fisica. Tutto induce a concludere che tale - come risultato dei profondi disturbi psicologici della sua infanzia - era lo stato di Elisabetta. Odio l'idea del matrimonio, ebbe a dire a Lord Sussex, per ragioni che non confiderei neanche alla mia anima gemella.

A sollecitare, tuttavia, la lettera di Freud del Natale 1928, appare chiara la presenza di un altro stimolo, probabilmente di maggior rilevanza, al di là di quanto di «psicoanalitico» egli aveva individuato nel libro di Strachey. Non solo i tempi di Elisabetta erano anche i tempi di Shakespeare, lo scrittore che, con Goethe, Freud privilegiava tra tutti e al quale aveva dedicato non poche delle sue ricerche e delle sue pagine, ma - come già si è accennato - non è certo difficile scorgere, nel trattamentò che Strachey fa della materia di questa biografia, il diretto influsso delle procedure teatrali di Shakespeare. In maniera più diretta, Elisabetta, regina senza figli, ha richiamato a Freud il Macbeth, del quale, nella Interpretazione dei sogni, aveva scritto che «ha per tema la mancanza di figli». E su questa tragedia, che egli poneva, con Amleto, tra i grandi libri dell'umanità, si sofferma nella seconda parte della lettera, sollecitando Strachey su due questioni nodali concernenti un eventuale nesso tra la vita di Elisabetta e la tragedia di Shakespeare. Lo fa, a sua volta, con una certa «drammatizzazione» («Molti anni fa, mentre me ne stavo davanti al sarcofago di questa regina, a Westminster, mi vennero in mente alcune riflessioni»). Mi sembra improbabile pensare a un lapsus di memoria o a una dimenticanza. In Alcuni tipi di carattere, uno scritto del 1916, quando i ricordi del viaggio � Londra nel 1908 dovevano essere ben più freschi, la versione che Freud dà di queste «riflessioni» è un'altra. A conclusione di alcune pagine dedicate a Lady Macbeth, tratta ad esempio di «coloro che soccombono al successo», e dove viene ripreso con forza il tema della mancanza di figli, Freud riferisce come sia stata di Ludwig Jelkels l'osservazione che Shakespeare «sovente scompone un carattere in due personaggi, ciascuno dei quali appare non completamente intelligibile fino a quando non venga ricondotto a unità con l'altro». Ma citiamo più ampiamente: 25

Ludwig Jelkels, in un suo recente studio su Shakespeare, ha creduto di aver scoperto una delle tecniche particolari del poeta, che potrebbe essere presa in considerazione anche per quanto riguarda Macbeth. Egli dice che sovente Shakespeare scompone un carattere in due personaggi, ciascuno dei quali non appare perfettamente intellegibile fino a quando non venga ricondotto ad unità con l'altro. Questo potrebbe anche essere il caso di Macbeth e della moglie; allora non si arriverebbe ovviamente a una conclusione considerando la moglie come una personalità autonoma e cercando di scoprire i motivi della sua trasformazione senza prendere in considerazione la personalità di Macbeth che la completa. Non intendo seguire oltre questa traccia, ma voglio aggiungere un particolare che sostiene con una certa evidenza l'interpretazione accennata: i germi di angoscia che si manifestano in Macbeth la notte del delitto non si sviluppano oltre in lui, ma in lei... Ma poi è lei che si lava le mani per un quarto d'ora e non riesce a togliere le macchie di sangue...* E Freud conclude: Si compie così in lei quanto lui aveva temuto nel1'angoscia morale che lo aveva assalito; lei diventa il rimorso dopo il delitto, lui diventa la sfida ostinata: insieme esauriscono ogni possibilità di reazione al crimine, come due parti disunite di una stessa individualità psichica; e forse sono stati copiati entrambi da un modello unico. Quest'ultima osservazione, che è quella che ci riporta a Elisabetta, è chiaramente una elaborazione tutta di * (E lo fa, possiamo aggiungere, per tutti e due: «Un po' d'acqua ci farà mondi di questo atto», Atto secondo, scena 2. Quella del ci è una sottolineatura nostra). 26

Freud. Ma vi è da chiedersi se anche quanto lo aveva interessato nello scritto di Jelkels non si ricollegasse, in qualche maniera, a una sua antica notazione, che ci è riferita dai Dibattiti della società psicoanalitica di Vienna e riguarda la seduta del 27 marzo 1907, nella quale Sadger, parlando del sonnambulismo, aveva citato Lady Macbeth. Freud, nella discussione, fa infatti osservare che Il caso di Lady Macbeth non è di comune sonnambulismo, ma qualcosa di più simile a un delirio notturno... Chi parla nel sonno non tradisce mai il proprio segreto... Eppure Lady Macbeth, stranamente, tradisce il segreto; ma non si tratta del suo segreto personale, del suo segreto di Lady; infatti recita ogni cosa nella parte del marito. Seguendo la scia di queste considerazioni, la mancanza di figli, i crimini perpetrati nei confronti di Mary Stuart e di Essex, il dubbio, il rimorso, il quesito di Freud sulla possibilità che Shakespeare, per la figura di Lady Macbeth, si sia ispirato a Elisabetta assume una sua verosimiglianza: cui aggiunge ulteriore probabilità la «diagnosi», da parte di Strachey, che la regina fosse un'isterica: al «grande psicologo», a Shakespeare, il merito di averne saputo cogliere la scissione duplicando, nel Macbeth, il suo personaggio con quello del marito. Il libro di Strachey su Elisabetta, i suoi tempi, la sua corte, offre a Freud lo spunto per interrogarne l'autore e per interrogare se stesso sull'ipotesi, avanzata nel 1920 da J. Th. Looney, in 'Shakespeare', Identified in Edward de Vere, Earl ofOxford, che proprio nella cerchia più stretta della regina fosse da ricercarsi la vera identità di colui che aveva scritto sotto il nome di «Shakespeare». De Vere vi appartenne, e Strachey lo aveva ricordato come una delle persone più vicine al cuore di Elisabetta: «un re ardito dei tornei». 27

L'ipotesi di Looney aveva colpito Freud, che la fece propria, al punto di rinunziare, per ragioni di datazione, al nesso che egli aveva voluto istituire tra la composizione (e la problematica) dell'Amleto e la morte del padre del suo autore, sia nella Interpretazione dei sogni che nella Autobiografia del 1924. La lettura, evidentemente successiva, del libro di Looney lo aveva indotto, nel 1930, più cautamente in una nota della Interpretazione e nel Discorso nella casa di Goethe, in maniera esplicita, nel 1935, in una all'Autobiografia ad affermare: «È questa una costruzione ['L'Amleto fu scritto da Shakespeare poco dopo la morte del padre'] che ci tengo esplicitamente a ritirare. Non credo più che l'attore William Shakespeare di Stratford sia l'autore dell'opera che per così tanto tempo gli è stata attribuita. Da quando è stato pubblicato il libro di J. Th. Looney, 'Shakespeare' Identified in Edward de Vere, Earl of Oxford (1920) mi sono persuaso quasi del tutto che il nome di Shakespeare sia uno pseudonimo che copre Edward de Vere». Ma la questione doveva appassionarlo molto, se vi accennerà ancora in L'uomo Mosè e la religione monoteistica (1938) e nel Compendio di psicoanalisi (1938), dove sottolinea, riferendosi ancora ad Amleto, che «de Vere aveva perduto il padre amato e ammirato quand'era ancora bambino e si era completamente distaccato dalla madre che subito dopo la morte del marito si era risposata» (al pari della madre di Amleto?). Ernst Jones, nell'appendice A a Vita e opere di Freud riproduce due lettere di Freud sullo stesso argomento. Nella prima, indirizzata a Richard Flatter, traduttore dei Sonetti di Shakespeare, il 20 settembre 1932, Freud, citando il libro di Gerald H. Rendall, I sonetti di Shakespeare ed Edward de Vere, ribadisce la propria convinzione che de Vere sia Shakespeare: «alla luce di una simile ipotesi i Sonetti diventano molto più comprensibili». Più importante la seconda lettera riportata da Jones. È 28

indirizzata al critico inglese James Branson, autore di uno studio su Re Lear, e porta la data del 25 marzo 1934. Freud si era soffermato su Lear nel saggio Il motivo della scelta degli scrigni (1913), ove aveva, tra l'altro, affermato che «Il rapporto paterno, dal quale si sarebbero potuti trarre copiosi e fecondi spunti drammatici, non viene nel corso del dramma ulteriormente sfruttato» («Ulteriormente», cioè dopo la scena iniziale della divisione del regno). Scrivendo a Branson, Freud si richiama a questo suo scritto di vent'anni prima, ma accentua fortemente il ruolo svolto dal tema della paternità, in una tragedia che «tratta dei rapporti tra il padre e le tre figlie»; e ne trae nuovi argomenti per l'ipotesi de Vere. Nel rendere conto di tutta la questione, e, più in generale dell'interesse di Freud per l'identità di Shakespeare, Ernst Jones, nel paragrafo dedicato alla «Letteratura» della seconda parte del terzo volume della sua biografia di Freud («Rassegna storica di alcuni argomenti»), offre una serie di altri particolari sull'interesse di Freud per de Vere; ricorda tra l'altro che Freud, in una lettera del marzo 1928, lo aveva pregato «di fare un'indagine approfondita in proposito, che ci avrebbe permesso di �iungere a delle conclusioni psicoanalitiche sulla personalità dell'autore», e che «non fu affatto d'accordo» sulle critiche che alla tesi di Looney Jones aveva fatto: «rimase evidentemente deluso della fredda accoglienza che avevo riservato alla nuova ipotesi». Jones aveva evidentemente preso sottogamba l'interesse di Freud, se si dimostra stupito del fatto che in occasione del suo settantesimo compleanno, nel 1926, «alle due del mattino», discuteva ancora con lui, con Eitingon, con Ferenczi, di de Vere: e se, nella biografia, si concede un witz sull'«infelice nome di Looney» (che in inglese significa «matto»). La lettera a Lytton Strachey, di pochi mesi dopo, testimonia, al contrario, del desiderio di Freud di non abban29

donare l'argomento. In una nota alla lettera, che pubblicano in appendice al ricordato libro Bloomsbury/Freud, i curatori affermano: «È una duplice sfortuna che Lytton, a quanto pare, non abbia mai risposto alla lettera di Freud: avrebbe potuto liberare il Professore da questa ingannevole credenza». La «credenza» di Freud era certo «ingannevole». Ma ciò che non sembrano aver colto né Jones, con la sua freddezza di fronte alle richieste del suo maestro, né il buon senso di Meisel e Kendrick, è il fatto che il suo ostinato interesse per la propria ipotesi non aveva certo carattere «filologico», ma, come comprovano tutte le sue osservazioni in merito, specificamente psicoanalitico. Concerneva cioè il grande tema dei rapporti con il padre e la figura paterna: quello stesso che percorre, filo rosso che può unirne le disjecta membra, le pagine di questo scritto: «Chi è il padre?», Strachey chiamato «Papa» da Virginia Woolf, il padre stesso di Virginia, la morte del padre di Shakespeare in relazione con l'Amleto, Cordelia e le sue sorelle e il loro padre re Lear. Mario Spinella NOTA L'andamento discorsivo di questo scritto suggerisce di non appesantirlo di note. Le citazioni di Michael Holroyd sono tratte da Lytton Strachey. A Biography: i riferimenti sono alle pagine dell'edizione Penguin Books (1980, pp. 1144). Tra le altre opere citate: Michael Holroyd e Paul Levy, The shorter Strachey, per «Monday, June 26th 1916» (Oxford University Press, 1980); The Diary ofVirginia Woolf, voi. III, 1925-1930, London, Hogarth Press, 1980; i volumi III e IV delle Letters di Virginia Woolf (London, Hogarth Press, 1977 e 1978). Per le citazioni di Freud, le Opere, Torino, Boringhieri, 1967-1980. Bloomsbury/Freud. The letters ofJames and Alix Strachey, 19241925 a cura di Perry Meisel e Walter Kendrick, è pubblicato da Basic Book, New York, 1985. Le traduzioni da Strachey sono dell'autore dell'articolo; quella dal saggio di Virginia Woolf, «L'arte della biografia», sono di Masolino d'Amico; il saggio è pubblicato come premessa all'edizione italiana di La regina Vittoria di Strachey, Milano, Il Saggiatore, 1982. 30

«Molto rumore per nulla» il sospiro, la calunnia, la lettera «Da un'aria del Barbiere di Siviglia abbiamo appreso come la "calunnia" non sia solo un "venticello", ma che possa esacerbarsi fino a somigliare a un "colpo di cannon"»1 . Può un «sospiro», dal Palazzi definito come «un atto di inspirazione e di espirazione più lungo del normale, cagionato da un moto dell'animo» trasformarsi o-preludere a una manifestazione altrettanto clamorosa? Nel quadro di una «configurazione discorsiva»2 l'emissione di uno o più sospiri può connotare desiderio, pena, rimpianto e persino il momento della morte. Nella sfera culturale inglese, come attesta The Oxford English Dictionary, il sospiro può anche essere segno di pentimento, di una richiesta sommessa di perdono. La nostra illimitata curiosità oggi si circoscriverà a guadare testi in cui la manifestazione seriale di sospiri precede, s'innesta in una «configurazione passionale»3 che non esitiamo a riconoscere come afferrabile a un codice proairetico marcato dall'ideologema del simbolo4 • Si tratta di un composito «sintagma passionale» in cui un «innamorato respinto» o una intera falange di «pre-. tendenti» frustrato dalla scelta della «amata», sull'orlo delle nozze, o, anche a nozze appena celebrate, mette o mettono in atto un programma narrabile o una strategia virtualmente scenica conveniente per disgiungere «l'in31

namorato corrisposto» dall'«oggetto del desiderio». Il programma contempla una particolare forma di vendetta consistente nell'accusare-calunniare «l'amata» presso il felicemente «riamato», la cui incredulità viene messa alla prova e trasformata in «certezza del tradimento». Ciò avviene mediante il travestimento, da «coppia clandestina», di una donna (che funge da simulacro dell'amata) e di un giovane di credibile prestanza. «L'innamorato riamato» deve assistere, celato e abbastanza distante per non cogliere la eventuale differenza, all'arrivo del presunto amante alla casa della «amata». L'armatura narrativa o teatrale si costituisce dei seguenti motivi disposti in ordine logico e cronologico: 1. congiunzione realizzata o virtuale degli innamorati; 2. frustrazione di uno o più personaggi per l'irreversibile perdita dell'oggetto del desiderio; 3. progetto di vendetta; 4. calunnia dell'oggetto del desiderio presso il «riamato»; 5. promessa di una prova inconfutabile della tresca; 6. travestimento; 7. messa in scena di un incontro clandestino e colpevole; 8. frustrazione del «riamato» deluso; 9. ricusa della «amata» (disgiunzione); 10. morte apparente della «amata» o del «riamato»; 11. punizione-espiazione della gelosia e della ingiusta ricusa; 12. ricongiuzione degli innamorati. Vedremo come i motivi si riconfermino nell'ordine enunciato nella «struttura discorsiva» di opere che vanno dal «romanzo greco» fino alla commedia rinascimentale, per dissolversi con la «estetica dell'identificazione»S, dominante nella cultura simbolica. I motivi, figurativamen32

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