Il piccolo Hans - anno XIV - n. 54 - estate 1987

ciali - penso al giardino di Armida, al Bower ofBliss di Acrasia - vengono distrutti. L'età dell'oro scompare da ogni angolo della terra. Ogni sua traccia. Nei libri, nei continenti. Poi, sarà la volta del paradiso vero. La rappresentazione della condizione paradisiaca tende a costruirsi come un tutto pieno, attraverso una lavorazione fitta di temi e di motivi che riempie l'occhio e l'orecchio interiori: perfetto rispecchiamento di quella sorta di saturazione del tessuto vivente a tutti i suoi livelli di specializzazione, di illimitato potenziamento del sentire, di estesia diffusa e onnipervasiva, che è l'immagine più rispondente che riusciamo a farci della felicità. E il corpo saturo si fa pesante, torpido, impacciato nel movimento. Verdant e Rinaldo, nei giardini delle loro maghe, giacciono abbandonati. Abbandonato, in quel paradiso infero che è la sua casa, giace Roderick Usher, il quale «suffered much from a morbid acuteness of the senses». Una «sentience» diffusa e disordinata, che lo assimila al mondo vegetale e al regno dell'inorganico, è la malattia mortale cui egli si consegna volontariamente: «mi mancano le parole», scrive Poe, «per esprimere la profonda adesione con la quale si abbandonava a quella convinzione». Adamo ed Eva, nel loro paradiso, invece, lavorano. Il ribaltamento è del tutto interno all'altra e maggiore inversione di sguardo operata da Milton: non con gli occhi del Cavaliere della Temperanza - si chiami Ubaldo, Guyon, o, come in Poe, soltanto «io» - egli ci fa spiare la scena del paradiso, ma con quelli di Satana Campione dell'Invidia. L'inganno ora è passato dalla parte di chi guarda, mentre lo spettacolo è vero. Oggetto di fede. Da una parte, allora, il quadro della felicità: immobile, pesante. Dall'altra, le parole che di quel quadro si vogliono impadronire: agili aggressive. Il compito più difficile le attende: investire l'essere al suo meno linguistico, in 67

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