Il piccolo Hans - anno XIV - n. 54 - estate 1987

l'esecuzione dell'orazione fosse accompagnata dallo scorrere muto e interiore delle imagines. Ora, nel teatro, è la parola, la scena nel suo complesso, a far sorgere l'immagine che deve rimanere chiusa nell'interno della mente. Il processo è lo stesso, ma la direzione è invertita, perché è nell'interiorità silenziosa che alla parola è assegnato il suo compimento. Frances Yates ha ricostruito il nesso tra la memoria artificiale della retorica antica e la memoria magica rinascimentale. E al teatro della memoria sembra alludere il Coro dell'Enrico V, mentre ne prende definitivamente congedo. Nel momento in cui stacca la parola dalla sua imago, sorta di ectoplasma visivo che l'appesantisce, e l'avvia verso costruzioni di spazi più ideali, proprio alla pesantezza di quella imago il Coro s'appoggia: «perdonate, voi tutti gentili spettatori, gli spiriti piatti, non suscitati, che hanno osato evocare (bring forth) su questo indegno palco[...]». Certo, è imbarazzante pensare che una grande età del teatro sia tutta percorsa da quest'ansia nei confronti dello spettacolo: di ciò che, di sé, dà segno. «I have that within which passes show», dirà Amleto, e morirà nella lotta per conquistarlo, il suo show. Così, mentre mette in campo i suoi cavalieri per la sconfitta della maga Duessa e il definitivo trionfo della vergine Una, Spenser sa anche di lavorare, col suo romance poetico, per l'avvento del segno che, mostrando, divide: «seeing all things accounted by their showes». Davvero il paradiso sarà perduto, allora, quando sull'indistinto della segnatura si sarà aperta quella divisione. Ma, prima che questo accada, tutti i vecchi segni analogici, espressione di un rapporto di continuità tra l'essere e il mondo, tra la natura e il grande libro che la legge, dovranno essere cancellati. Mentre la furia protestante si abbatte sugli antichi monasteri cattolici, e fa scempio dei tesori d'arte che vi sono custoditi, tutti i paradisi artifi66

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