Il piccolo Hans - anno XIV - n. 54 - estate 1987

re ascolto. Alla debole traccia di esso ancora udibile. Canto della presenza, dell'immobile contatto dei corpi, uno sull'altro. Canto che non conosce fuga, caccia, inseguimento. Canto senza nostalgia. Canto cui la memoria della musa non giova. Il Coro dell'Enrico V invoca, ancora in veste di Prologo, una «musa di fuoco» - o poterla avere quella musa... - che lo trasporti su, nel cielo più alto dell'invenzione poetica. Musa, fuoco, cielo, invenzione valgono lì come altrettanti termini tecnici, elementi di una rappresentazione del mondo costruita sul principio dell'analogia e della corrispondenza. Ed è quando leggiamo i versi tenendo a mente il significato che quei termini hanno nella retorica, ossia nella partizione del sapere alla quale appartengono in quella rappresentazione, che cogliamo il movimento profondo del pensiero cui essi danno voce. Movimento paradossale, che annulla la richiesta nel momento stesso in cui l'avanza. Movimento assurdo, che vuole insieme il prima e il poi. Preposterous, confinato all'immobilità. Alla musa di fuoco apparterrebbe di diritto il cielo empireo. Lassù -è il decimo nella scala di Tolomeo -le essenze risplendono di purissima luce intellettuale, al cui confronto si annulla la piccola fiamma chiamata nell'uomo fantasia: da fòs, luce. Nessun canto percepibile da orecchie umane troverebbe la musa nel cielo del fuoco: all'alta fantasia mancherebbe, ancora una volta, la possa, la forza cioè dell'invenire poetico. Si annuncia segreta la figura dell'adynaton: di una impossibilità. Non, come subito dopo pretenderà di spiegare il Coro, una contingente penuria imposta dalle circostanze -1'angustia della O di legno nella quale la scena regale sarebbe costretta- ma un impossibile dell'ordine naturale vieta la presenza di re e di principi che, come attori, vengano a recitare la parte che è loro assegnata nella vita: la serie analogica musa-fuoco-cielo-invenzione ap59

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