Il piccolo Hans - anno XIV - n. 54 - estate 1987

zione del paradiso sotto l'ombra inquietante del rovescio. L'evento della Caduta induce a pensare la storia come un andare a ritroso; lo sviluppo come un ricongiungimento col passato. Così, nel vivo della loro spinta colonizzatrice, i conquistadores videro nel Nuovo Mondo una spettrale riemersione dell'antico: Walter Raleigh descrisse come golden world la terra che in omaggio alla regina avrebbe chiamato Virginia. Fu la fantasia del vecchio e del noto, sebbene solo favoleggiato, a dare ai colonizzatori il coraggio di avventurarsi nell'ignoto. La felicità come tema poetico chiama in causa le risorse estreme del linguaggio, del quale sembra negare l'essenza più vitale: il tratto cioè della distanza, e il movimento verso l'annullamento di essa. Nell'immobilità dei beati, la lingua incontra la barriera più resistente contro la spinta animatrice che la pervade. Chi è felice non si muove, è appena scalfito dal più debole dei movimenti di parola - la descrizione - ma non si lascia trascinar via dalla sequenza irresistibile del racconto. Dove questo accade, la felicità è già tramontata, la scena del paradiso è già diventata il ricordo del paradiso perduto. Ma può davvero esistere, nella lingua, questa scena della felicità, o non è essa sempre, come per Holderlin, attesa del tempo a venire in cui «parole, come fiori, nasceranno»? E non è un po', il porsi questa domanda, come chiedere a Orfeo di prolungare all'infinito, tagliandolo fuori dallo scorrere del tempo, l'attimo in cui ha fissato il volto di Euridice? Però, sguardo c'è stato; e deve pur esserci un canto, di quello sguardo. Non solo attraverso la figura di Ulisse che, legato, ascolta il canto delle Sirene mentre la nave lo trascina lontano, pensa alla poesia la lingua, ma anche attraverso quella di Menelao che lega Proteo, dio delle forme, e così tenendolo fermo lo fa cantare. A questo canto del «servo di Posidone» - tale lo definisce Omero - vorrei ora porge58

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