«Il Paradiso qui» per Irma Marimpietri La domanda che muove queste mie riflessioni vuole mettere in rapporto il testo poetico con la rappresentazione della felicità. Felicità terrestre, da una parte - Eden, giardino di delizie, età dell'oro, stato politico ideale - e, dall'altra, il testo come portatore di quella rappresentazione. Un punto si intravede all'orizzonte della scena del paradiso in cui il motivo del lontano, e perduto, e perfetto, o, ancor meglio, della felicità goduta senza remissione nel momento presente, trapassa come più all'interno, nella cellula germinale stessa del testo: che è portato allora ad interrogarsi sulla propria capacità di inscenare, di essere, quel lontano e perduto e perfetto. È su quel limite della rappresentazione che vorrei arrivare a fissare lo sguardo; su quella divaricazione, ché tale a me appare, tra il testo - l'autoconsapevolezza che esso esibisce della propria virtù testuale - e il suo portato. Nel paradiso dell'origine, modello a tutti quelli successivi, il mito ha proiettato la fantasia di un esistere esente da difetto, immune da morte. Libero dal desiderio e dalla schiavitù della mancanza. Rispetto a ogni altro possibile luogo di utopia, quello paradisiaco si è assicurato il vantaggio della priorità; giocando d'anticipo, si è posto come mondo creato perfetto fin dall'inizio, non razionalistico rovesciamento dell'esistente. È anzi il mondo dato, e quanto mai imperfetto, ad esser collocato dall'immagina57
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