Il piccolo Hans - anno XIV - n. 54 - estate 1987

down the ladder, they have taken it away» (Murphy, cit., p. 106). E questo malgrado Beckett abbia dichiarato-solito suo vezzo - in un'intervista rilasciata a Gabriel d'Aubarède di non leggere mai filosofi, non comprendendo nulla di ciò che scrivono (Gabriel d'Aubarède, «En attendant Beckett», in Novelles Littéraires, 16 febbraio 1961). 46 lvi, 5.632: «Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo». 47 Watt, cit., p. 71. «[...] un istante nella vita di un altro, mal raccontata, mal ascoltata e più che per metà dimenticata». Si noti, incidentalmente, apparire-abbozzato, rovesciato-il primo mal vu mal dit beckettiano. 48 lvi, pp. 71-72. «E Watt non sapeva accettarli per quello che essi forse erano, semplici svaghi che il tempo si concede con lo spazio, ora con questi, ora con quei balocchi, ma era costretto, per il suo strano carattere, a indagare in quello che significavano, oh, non in quello che significavano realmente, il suo carattere non era strano fino a questo punto, ma in quello che si poteva arguire che significassero, con l'aiuto di un po' di pazienza, un po' d'ingenuità». 49 Ivi, p. 70. «[...] che per tutta la sua esistenza da adulto era vissuto, da miserabile è vero, in mezzo a valori nominali, nominali almeno per lui». so Ludwig Wittgenstein, Tractatus, cit., 4.466: «Tautologia e contraddizione sono i casi-limite del riesso segnico, ossia la sua dissoluzione». E, precedentemente, 4.463: «La tautologia lascia alla realtà tutto-infinito-lo spazio logico; la contraddizione riempie tutto lo spazio logico e non lascia alla realtà alcun punto. Nessuna delle due può quindi determinare comunque la realtà». 51 Watt, cit., p. 78. «Guardando una pentola, per esempio, o pensando a una pentola, una delle pentole del signor Knott, invano Watt diceva, Pentola, pentola. Beh, forse non del tutto invano, ma quasi del tutto. Infatti non era una pentola, più guardava, più rifletteva, più si sentiva sicuro di ciò, che non era affatto una pentola. Assomigliava a una pentola, era quasi una pentola, ma non era una pentola di cui si potesse dire, Pentola, pentola, ed esserne sollevato. Invano adempiva, con impeccabile adeguatezza, a tutti gli scopi, e forniva tutte le prestazioni, di una pentola, non era una pentola. Era proprio tale impercettibile differenziarsi della natura di una vera pentola che tanto angustiava Watt. Perché se l'approssimazione fosse stata meno grande, allora Watt si sarebbe dato minor pena. Perché allora non avrebbe detto, Questa è una pentola, eppure non è una pentola, no, ma allora avrebbe detto, Questo è qualcosa di cui io non so il nome. E Watt preferiva, a conti fatti, aver a che fare con oggetti di cui non sapeva il nome, sebbene anche questo fosse penoso per Watt, piuttosto che aver a che fare con oggetti di cui il nome noto, il nome accettato, non era il nome, non lo era più per lui». Watt è dunque vittima della ragione che vorrebbe un ordine esterno alle proprie percezioni. Scriveva Berkeley: «Appena abbandoniamo il senso e l'istinto per lasciarci guidare dal lume d'un principio superiore a quelli, per ragionare e meditare e riflettere sull'intima essenza delle cose, subito mille e mille dubbi sorgono nella nostra mente, proprio su quelle cosa che prima ci sembrava di comprendere perfettamente» 156

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