Il piccolo Hans - anno XIV - n. 54 - estate 1987

2. Arsene o della vanità Watt è stato spesso definito un romanzo bizzarro, stilisticamente nervoso, tagliente, addirittura scomodo (da leggere) se è vero che, come il Tristram Shandy o Io stesso Ulysses, conosce (fra i lettori) più divorzi che affiliazioni e vanta il maggior numero di abbandoni a metà strada. Pervaso di una certa mordacità e di taluni stilemi stemiani (non ultimo una sorta di sadismo sul lettore, del quale vengono messi a dura prova nervi ed attenzione), Watt è un romanzo cupo nel quale il paradosso- esplicitamente comico e che dona ai non prevenuti qualche benedetta sincera risata - introduce elementi dotati di una profondità di pensiero per gli anni- suoi e nostri- sconcertante. Come esplicita il titolo stesso, si tratta dell'epopea della domanda alla quale non si dà risposta (cioè se ne danno infinite); alle certezze comunque metafisiche nelle quali, per narrarsi, si giustifica ogni narrazione, questo romanzo sostituisce l'universo fisico del soggetto della percezione che vede male e ridice peggio e che, costretto a dare ragione contemporaneamente del percepito e di se stesso come percepiente (e dunque da altri percepito), finisce con l'incagliarsi nella linea che- tratteggiata, certo - dovrebbe collegare il segno linguistico al referente. A parte l'aneddotica legata a questo romanzo (che vede l'autore allestire le sue ruvide pagine a Roussillon, negli anni della guerra, paesino della Francia libera nel quale si era rifugiato per sottrarsi alla Gestapo), l'esemplare storia di Watt sembrerebbe scaturire dalla ferrea concatenazione di pensieri di chi, patendo, ha visto i proprigrandi, certamente- ideali andare in gelatina ed infine squagliarsi; di chi, in definitiva, incontrando, e purtroppo anche riconoscendo, la morte individuale (cioè incontrandola e riconoscendola in altri), ha da essa desunta l'ultima grande vanità: quella intellettuale, lo scrivere stesso. 125

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