Il piccolo Hans - anno XIV - n. 53 - primavera 1987

suo fine con la sua fine? Da una risposta in un senso o nell'altro, derivano conseguenze teoriche, ma poi anche pratiche, di qualche importanza; soprattutto, un'idea specifica della sua natura ultima. In effetti -è il punto da cui parto - la nozione di «non terminabilità» investe qualche cosa di molto materiale. Essere interminabile pare una qualità della scrittura in quanto abbia rapporto con la mano che scrive, con un gesto di applicazioni successive, di approssimazioni: la sua necèssità. Se volete, si lega piuttosto alla imperfezione che alla perfezione. Si potrebbe anche dire che la scrittura non è terminabile perché si sforza continuamente di terminarsi nello scritto - il suo non finire sarebbe l'effetto di una serie laboriosa di esercizi per finire. Ogni testo è un'intermittenza, perché rimanda altrove la sua conclusione. Trovo, mi pare, qualcosa da far parlare in proposito in Maurice Blanchot. «La situazione è questa: ha perso la capacità di esprimersi in modo continuo, come bisogna fare sia per garantire la coerenza di un discorso logico attraverso la concatenazione del tempo intemporale che è quello di una ragione occupata a cercare l'identità e l'unità, sia per obbedire al fluire ininterrotto della scrittura. La cosa non gli fa piacere. Eppure certe volte gli sembra di avere acquistato in compenso il potere di esprimersi per intermittenza o addirittura quello di parlare l'intermittenza... Giunge alla conclusione che la frase... esiste solo per provocare l'intermittenza o per farsi significare da essa o per darle qualche contenuto, in modo che la frase -è poi una frase? - abbia, oltre al suo senso proprio... un secondo significato costituito da questa interruzione intermittente a cui l'invita...» Se ad ogni opera (testo poetico) si riconosca la funzione di interrompere la ripetizione (Barthes), la figura dell'interruzione serve a portare avanti il discorso, ma in 194

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