Il piccolo Hans - anno XIV - n. 53 - primavera 1987

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica 53 primavera 1987 Sergio Pinzi 5 L'etica delle forme Virginia Pinzi Ghisi Sergio Pinzi 11 Misurazione, calco e originale nell'analisi di un caso di psicosi infantile Virginia Pinzi Ghisi 33 La forma logica del luogo della fobia preliminare a una comprensione della schizofrenia Ivan P6nagy 53 Le lettere vive in poesia Gianfranco Gabetta 117 Combinatoria e negativo. Accezioni dell'« euresi » Italo Viola 141 Lettura in morte di un libertino Mario Spinella 169 Il diario impossibile di Carlo Emilio Gadda Giuliano Gramigna 191 Dove finisce la scrittura Ermanno Krumm 209 Dal diario al frammento: una storia felice MINUTE Antonio Prete 223 Vocali ,� /

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Contardo Calligaris, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola. a questo numero hanno collaborato: Ivan F6nagy, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Gianfranco Gabetta, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Antonio Prete, Mario Spinella, Italo Viola. redazione: Via Nino Bixio 30, 20129 Milano, tel. (02) 2043941 abbonamento annuo 1987 (4 fascicoli): lire 35.000, estero lire 52.500 e.e. postale 33235201 o assegno bancario intestato a Media Presse, Via Nino Bixio 30, 20129 Milano Registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano Fotocomposizione: News, via Nino Bixio 6, Milano Stampa: Litografia del Sole, Albairate (Milano)

LJ etica delle /orme ReltUS (Frase: 3, 10. 1, 3) (da «Grand Hotel») Nel disegno del rebus non solo troviamo la chiave per scoprire, nella criptografia della madre, il segreto dell'attività paterna, quell'attività amorosa del padre che subisce nei nomi dei genitori una lavorazione atta a trasformarla, a far sì che tra il soggetto e il godimento paterno ci sia lo spazio per quella «divisione del nome» dalla quale il soggetto na- . 5

sce: una tecnica che il soggetto apprende per la sua sopravvivenza e che ci viene comunicata, all'età di quattro anni, dall'accostamento di due disegni; ebbene, questi due disegni, nella loro eterogeneità1 , sono accostati secondo la tecnica del rebus: un luogo viene rappresentato, che sembrerebbe unificare le diverse scene, un campo, il mare, una strada e delle case sul bordo, ma che la lettura svela come irriducibile ai profili, alle sagome, agli oggetti, alle azioni che vi si svolgono. Che cosa fa una vecchia in riva al mare? Suona la lira? Questo luogo è allora un'articolazione, come quella muscolare che configura nella bocca il cerchio della o o il grugno della u o la fessura sorridente della e, prima che queste vocali escano come suoni a comporre una parola. Quel cerchio, quel sorriso, quel grugno non corrispondono all'upupa se non per il becco, o per l'occhio tondo e stupito del tonno, tratti parziali che ci introducono a una nuova considerazione del rebus: nel luogo della fobia, nel quale abbiamo visto il suo funzionamento, si stabilisce anche il rapporto o il riferimento del soggetto alla natura. Il rebus non rispecchia la natura, fa del bricolage evolutivo ponendo in risalto delle lettere isolate e permettendo che queste scompaginino l'ordine del mondo allo stesso modo che la tinta bluastra assunta da un piccione lo rappresenta non di fronte a un suo simile ma presso «alcune strisce e altri segni» che compaiono a loro volta e che, unitamente al colore bluastro, appartennero all'antico progenitore di tutte le diverse razze di piccioni (columba livia). Correlazioni che, essendo indipendenti da cambiamenti nella struttura o nel carattere, ci ricordano le bizzarrie anatomo-fisiologiche dell'isteria. Il colore bluastro, le strisce e gli altri segni che avranno mai da dirci? O .il fatto che i gatti bianchi con gli occhi azzurri siano generalmente sordi, ma purché maschi? Che cosa possiamo farcene di queste correlazioni di marca surrealista? E di altre, come quelle che fanno sì che «la presen6

za di un gran numero di felini possa determinare in una certa regione la frequenza di piante, mediante l'intervento in primo luogo dei topi e poi delle api!»? Possiamo dire che ci servono per un uso importantissimo. Ci servono per scoprire il luogo dove l'eterogeneità, la diversità� è riconosciuta, perché è grazie ad essa che il soggetto trova, in un mondo pieno, e pieno terribilmente dei semi sparsisi ovunque del godimento del padre, trova diritto di cittadinanza. Un posto nell'economia della natura chiama Danvin questo luogo, ma con una, appunto, diversità, una diversità cancellata dal traduttore italiano che non essendo forse di Danvin un «amatore», manca di percepire quelle «differenze minime» che ne individuano il pensiero. L'espressione «a piace in the economy of nature» va incontro infatti nell'Origin of Species, a una variazione -fluttuante che la volge così: «a piace in the polity of nature». Polity è una parola veramente insolita e pochissimo usata nella lingua inglese. Viene da politeia e non vuol dire politica, come si potrebbe pensare considerando l'aggettivo abitualmente aggiunto a «economia». E un posto nell'economia politica è propriamente il posto assegnato a Danvin da quanti lo hanno dipinto come un teorico e un apologeta dello sfruttamento capitalistico o il patrono dell'evoluzionismo sociale. Il termine polity riguarda in realtà qualcosa di più originale: l'iscrizione del proprio nome, l'acquisizione di uno statuto simbolico, la conquista di un diritto di cittadinanza. Mutazioni climatiche o ambientali -o la chiusura delle «frontiere» - «liberano nuovi posti», spiega Danvin, ma questi non sono posti in essere che dal verificarsi di «differenziazioni nella struttura», da un arricchirsi e complicarsi delle forme viventi che imparano a nuotare, o ad arrampicarsi sugli alberi, o a essere meno carnivore. La diversità qualitativa delle forme moltiplica lo spazio interiorizzandolo (un prato dà molte più piante, e un maggior peso d'erba, se seminato con semi di diversi generi). 7

Così, nel nostro luogo della fobia abbiamo uno spazio che pur essendo un pezzo di realtà, non esiste nella realtà e che nasce innanzi tutto dalla differenza che si stabilisce tra animato e inanimato (allo stesso modo che in natura il dispiegamento di un ricco ventaglio di forme awiene sullo sfondo della soppressione di molte altre). In questo luogo, il soggetto può avere un nome che se all'origine è il nome del padre, ora se ne è diviso come se più cose potessero nascere da una sola, e ci si chiarisce per questa via come abbiamo potuto definire che questo luogo che sembrerebbe nascere da una interiorizzazione sia invece la «prima rappresentazione esterna dell'apparato psichico». Se seguiamo la vicenda del soggetto dall'angoscia alla risposta della fobia scopriamo come sono distinte, e coesistono la vecchia donna e la lira («la sedia non ha il fapipì», dice Hans), e come il suono di questa non corrisponda a un gesto della donna, e la domanda, da dove viene quella lira sulla sponda del mare, si ponga ancora drammaticamente nel disegno del rebus, dove ancora la vecchia donna, sì è una nonna, trattiene in sé il desiderio paterno, e la battigia è una barriera apparentemente cedevole all'invasione delle acque, ma che, misteriosamente, può solo curvarsi sotto la luce della luna, ma resiste, alla pressione delle onde. Ed ecco, intorno al bambino innominato, la soluzione del rebus. Ci giunge come un monito. Richiamo di come la giunzione di psicoanalisi e natura awiene in un'etica. La stessa che ci dice che se al termine della nostra analisi ci sembrerà che la minaccia dei lupi sia scomparsa dal giardino che ci attende al di là di un basso muricciolo, qualcosa avverta anche noi del fatto che ci troviamo in realtà all'ultimo piano di un grattacielo2 e che la costituzione della politeia che ci ha accolti ci impone di non scavalcare i davanzali. Un'etica delle forme nella quale si riconosce che la resistenza e l'antecedenza di queste sono le stesse qualità che 8

permettono al bambino di avere un posto, per le quali la prima rappresentazione esterna dell'apparato psichico è ciò che consente, durante la vita, il corretto funzionamento dell'altra pulsione, quella di morte, il cui compito è quello di ricordare la nascita delle cose nuove dalle antiche, quel soffio trattenuto che gli antichi chiamavano epos, per cui il destino è antico, ma l'uomo se lo inventa, ed è in un riquadro ben preciso senza sbavature e senza invasioni che un terremoto è il movimento da cui nasce una erre che però si chiama T, ed è nel riquadro che il « terribile»3 del godimento del padre attraverso gli oggetti stessi per i quali si propaga, la nonna, le onde, la lira, diventando visibile deve sottostare anch'esso all'etica delle forme che non può più occultamente devastare, giacché sono le medesime ad ammonire: non nascondere l'ira. Sergio Pinzi Virginia Pinzi Ghisi 9

NOTE 1 Cfr. Finzi Ghisi V. e Finzi S., Nel disegno del rebus: manipolazione del nome del padre e deposito di una «unità di misura» nelle teorie sessuali infantili, «Il piccolo Hans», 50, aprile-giugno 1986. 2 Vedi in questo numero: Finzi Ghisi V., La forma logica del luogo della fobia, preliminare a una comprensione della schizafrenia. 3 Cfr. V.F.G., Qualcosa del terribile, «Il piccolo Hans», 51-52, lugliodicembre 1986. 10

Misurazione, calco e originale nell'analisi di un caso di psicosi infantile ...on the Verge o/ insanity Charles Darwin La supervisione è il calco dell'originale. Se qualcosa della verità emerge in analisi, quanto attraverso l'analista giunge al suo supervisore o controllore che dir si voglia, ha l'impronta della verità. Costituisce il suo calco. E proprio in questo si scopre la funzione della supervisione al di là della necessità di una fase didattica. La supervisione è infatti in rapporto con la possibilità che, attraverso una tecnica, ciò che dell'origine si ripresenta all'analizzante sia sostenibile. E sua è la misura del «terribile», che nella supervisione trova il suo campo e i suoi confini. E in quanto essa è prevaricazione dell'originale, decantazione e deposito di ciò che può entusiasmare l'analista ingenuo, essere a colloquio diretto con l'inconscio, può illuminare una seconda formulazione che anticipo qui: il confine del giusto, il giusto confine, è il confine della paranoia. Tale confine, l'abbiamo visto in Il posto dell'Origine nel riconoscimento della psicosi1 e poi in Nel disegno del rebus: manipolazione del nome del padre e deposito di una «unità di misura» nelle teorie sessuali infantili, è il filo di 11

congiunzione tra verità e origine oppure la barriera che separa dalla deflagrazione del godimento del padre dal quale direttamente lo psicotico nasce.2 Ci troviamo così di fronte a due aspetti: il rapporto del paziente con l'originale e quello dell'analista con il calco. E mi sembra che niente possa meglio illustrare genesi e struttura in un caso di psicosi, di un caso che, appunto, mi è pervenuto in supervisione. Spesso i bambini si presentano per la prima volta ai loro terapeuti con un indovinello: un indovinello che può anche star tutto nella posizione del corpo o in qualche dettaglio dell'abbigliamento o in una piccola pantomima, come se si trattasse di dare un nome a delle statue viventi. L'indovinello del bambino di cui intendo parlare consiste in un semplice disegno ripetuto in continuazione: una casa e due alberi posti uno da una parte e uno dall'altra, sotto la casa stessa. Marco non comunica altrimenti. Benché sia prossimo alla pubertà e frequenti la scuola pubblica, praticamente non parla: si limita di tanto in tanto a pronunciare qualche slogan televisivo o delle formule pubblicitarie. Al suo disegno mostra però di tenere molto. Lo fa e lo rifà accompagnandolo con un gesto, sempre il medesimo, che sembra al tempo stesso sollecitare ed esaurire una spiegazione, un gesto quindi che esprime simultaneamente impazienza e sazietà. Questo gesto che viene in un certo senso a siglare il compimento del disegno consiste nell'atto di muovere le due mani come per sollevare e soppesare qualcosa di gravoso. Poiché in mano tiene spesso uno o più pennarelli, Marco ha battezzato questo suo atto: ballare i pennarelli. A tutti i tentativi della psicologa che lo ha in cura di 12

stabilire un rapporto, di parlargli e farlo parlare, Marco risponde allo stesso modo: disegno sempre uguale e mossa successiva. Un indovinello dicevamo, e come tale dotato di una soluzione depositata da qualche parte, e prima di tutto nella testa o nelle parole di coloro che a Marco avevano affidato il testo cifrato o che di Marco avevano fatto questo stesso testo: i suoi genitori. Dell'origine del disturbo di Marco, in realtà una vera e propria psicosi, esistono due versioni. Secondo la madre l'inizio si ricollega all'operazione di asportazione delle due tonsille. Per il padre invece la cosa incominciò con la caduta di un tuono, in un campo come precisa il ragazzo. Abbiamo in mano dunque due spiegazioni (e un'aggiunta), dalle quali sembra emergere una possibile soluzione del caso: la perdita delle tonsille si sarebbe tradotta in un complesso di evirazione al quale corrisponderebbe da una parte la raffigurazione tripartita (casa più alberi) di un organo genitale integro e dall'altra il gesto evocatore di quella parte dell'organo stesso che, più strettamente assomigliando alle tonsille, meglio rende il legame tra un'insofferente potenza sessuale virile e degli scoppi di voce più apparentati al tuono che alla parola. Poiché con i bambini fare miracoli è abbastanza facile, può essere tentante immaginare per l'uso di una simile chiave interpretativa il successo che arrise a Madame Dolto allorquando al bambinello che le andava incontro con aria un po' vergognosetta disse: ma come mai i tuoi pantaloncini non hanno la patta davanti? non farai pipì come le bambine? Lampo ed emancipazione! Qui l'interpretazione agisce con la forza e la rapidità del fulmine aprendo una zip dove non c'era che una superficie piatta. Invece come il tuono si manifesta sempre con ritardo e spostato altrove dalla sua scaturigine, così la psicologa di Marco non colse forse qualcosa di quanto 13

le si mostrava nel disegno insistito se non quando si trovò a riferire a me in supervisione dell'atto brutale e semplificatore con cui il suo piccolo paziente le illustrò la serie delle correlazioni organiche su riferite infilandole le due mani fino a quel paio di globi che a lei non mancavano benché muti. Ho detto piccolo paziente e al lettore non sfuggirà il singolare contrasto di questo aggettivo con l'atto ora descritto, un gesto da grandi, che se per l'intento illuminante ci richiama l'interpretazione di Dolto, tocca però la sfera del motto di denudamento e pare annunciare un possibile sbocco nella violenza sessuale. Da dove viene allora quell'aggettivo «piccolo»? Con la stessa pervicacia con cui si trovò a non sciogliere l'indovinello di Marco, fornendo l'interpretazione che questo in qualche modo sollecitava, con la stessa tenacia, contro l'evidenza di tutti i suoi assalti da adulto, la giovane psicologa perseverò nell'errore di regolarsi con Marco come con gli altri suoi pazienti in tenera età, fino a mettergli a disposizione le stesse batterie di giocattoli, fino a proporgli di responsabilizzarsi della sua terapia pagando le sedute, come gli altri bambini, con dei sassini. Nel rapporto con i bambini l'analista è sospinto verso i due estremi: quello del taumaturgo e quello dell'idiota. Ma è a questo piuttosto che all'altro estremo che lo psicoanalista si trova collocato in quella che è l'unica posizione veramente utile al progresso della cura e che è la posizione dell'essere, come si dice, «in didattica». Vediamo come questo avviene. Il bambino, è evidente, detiene l'interpretazione. Quello che egli rappresenta, mette in scena davanti al terapeuta non è la catena dei suoi sintomi: spesso è anzi difficile rendersi conto di quale sia effettivamente la sofferenza, la sintomatologia, dei piccoli pazienti. Dei sintomi sono gli adulti che li accompagnano a far parola, e questo perché sono loro sintomi, comportamenti che li hanno spinti a cercare l'aiuto di un 14

esperto come il nevrotico è spinto a un certo punto a cercarlo. per i propri problemi. Il bambino, come lo psicotico, presenta soluzioni, risposte. Ma, mentre per lo psicotico l'essenziale è trovare le domande giuste, altrimenti sbagliando domanda anche la risposta cambia e per lo più nel senso più minaccioso del termine, al bambino non serve tanto la domanda giusta quanto, come nel caso che stiamo esaminando, quel felice errore che consiste nel formulare proprio la domanda sbagliata, così come avviene che un ricambio di fortuna riesca a far funzionare l'apparecchio guasto se l'originale manca. Nel caso della piccola Sabrina, frutto di una fecondazione in vitro, è lei stessa a mancare aUa propria origine naturale. Creatura in qualche modo artificiale, funge lei stessa da protesi, è dalla nascita quel pezzo che Hans alla fine della sua cura sogna di vedere sostituito dallo stagnaio. Alla sua psicoterapeuta che si pone sul suo stesso piano, partecipando ai suoi giochi e in qualche modo rispecchiandosi nel suo essere trait-d'union tra i genitori e tra i genitori e lei, il problema pare che sia quello di colmare il gap relativo all'origine reintegrando in un modo o nell'altro la funzione della copula. A questo serve forse l'abbandono frequente al gioco del solletico, un gioco sottilmente disperante, di cui si può morire, morire dal ridere, mimando i preliminari e i postumi di un coito che non c'è stato. Figura, per la psicoterapeuta, di ciò che vi è di assillante nell'imperativo, per l'adultò, di non mascherare, di rivelare, infine, come nascono i bambini. Ed è mirabile il modo in cui la piccola corregge queste aberrazioni dell'ottica narcisistica. Essa effettua un giorno un disegno particolare: in un cuore delinea il ritratto del volto della sua terapeuta. Poi lo prende e lo nasconde in un cassetto, correndo a controllare che ci sia ancora ogni volta che ritorna da un periodo di sospensione dei 15

colloqui. Così, instaurando la dimensione trascendente del transfert al posto della ripetizione isterica dell'immanenza dell'atto, Sabrina si garantisce a un tempo la continuità di una durata e le intermittenze, il respiro che il solletico le toglieva. Sabrina rinvia dunque la sua terapeuta a un terreno, che è quello della supervisione, nel quale può svolgersi una fase di una «didattica», un terreno abilitante a fare dell'interpretazione qualcosa di diverso da un semplice e bruto sapere dell'origine. Che cos'è infatti un controllo? Controllo è la situazione in cui un analista o un terapeuta porta un caso, trasporta il discorso stesso del soggetto che ha in analisi o in terapia presso un altro analista, suo supervisore. E perché questo portare altrove è necessario affinché appaia la verità del caso in questione? Una supervisione non è solo questione di tecnica, ma di dare a un caso il luogo necessario perché questo caso possa risolversi. Da Marco il tuono, sconquasso fisico indeterminato, viene fatto cadere in un campo. Per l'analista giovane è come se la voce del suo paziente avesse le caratteristiche del tuono: questa voce che lo sconquassa ha le caratteristiche della voce del padre. Marco che trema di paura a sentire il padre che si schiarisce la voce nella stanza accanto parla solo per riprodurre, come dicevo, slogan, ritornelli, frasi fatte. È come se per essere stato messo faccia a faccia con le sue tonsille, con l'origine naturale della voce, egli si fosse trovato sottoposto alla necessità di far passare la propria voce attraverso una mediazione meccanica, attraverso l'artificio della riproduzione radiotelevisiva o anche semplicemente attraverso la ripetitività del versetto e della moda. Il controllo, la supervisione, diventa per lui un trasformatore del tuono, una specie di sintetizzatore elettronico della parola. Egli parla attraverso questo strumento che si caratterizza per l'essere privo di qualsiasi punto di 16

contatto con l'origine naturale delle cose, fonte del suo terrore. Il controllo infatti, notammo all'inizio, avviene su una copia, su un calco dell'esperienza terapeutica. Davvero come in una seconda nascita Marco può farsi luce attraverso la massa collosa che lo ingloba, che gli riempie la bocca e gli copre la testa e incominciare a descrivere un reale in cui tutto, dalla minaccia paterna di bollirgli il capo nel brodo alla curiosità per la gomma da masticare che si appiccica ai denti, al timore che lo schiaccia al suolo e gli fa esclamare, ripetutamente, «si appiccicano, si appiccicano i giorni», tutto fa comparire a questo punto, quasi colorandola chimicamente, la sostanza invisibile che è il succo del godimento di suo padre. Di questo godimento, che si concentra per il padre cantore del coro cittadino, nella voce, Marco è il prodotto e il prigioniero. Lo spiraglio che per lui rappresenta l'essere della sua psicoterapeuta in controllo, mentre lo sottrae al rischio terribile di un faccia a faccia con l'oggetto della passione supposta al padre, rischio talvolta precipitato in violenti passaggi all'atto, permette l'emergere di un nuovo registro percettivo, da acustico a visivo, e l'avviarsi di una «carriera» che ricollocando la psicosi al confine della perversione avvicina anche la possibilità che venga disegnata la mappa dove si reperisce un soggetto. Marco incomincia sia pure per cenni a parlare della scuola. E nella scuola, nel cortile, ambienta, in particolare, lo scenario modificato di quel suo gesto di averne... abbastanza che mi ricorda la frase di un padre a proposito del tempo in cui suo figlio non era ancora nei suoi coglioni. Marco dunque racconta che a scuola fa ballare la ghiaia del giardino e che questa gli colpisce gli occhiali. La moltitudine dei pennarelli che come tanti piccoli peni, sommandosi, paiono poter eguagliare il «sigarone» del padre, e sigarone chiama Marco anche il proprio 17

pene, si spezzetta nella quantità innumerevole della sabbia e della ghiaia: con i caratteri dell'inanimato avviene così che lo sperma non salti più direttamente agli occhi, oscurando ogni altra vista, ma colpisca gli occhiali, una protesi, una protesi in vetro. Marco porta gli occhiali dall'età di cinque anni. Dopo questa osservazione dà prova di accorgersi dei cambiamenti, degli spostamenti avvenuti nella stanza in cui si incontra con la psicologa. Parla del tempo, inteso come meteorologia: i temporali in cui cadono i tuoni, ma anche come passaggio di stagioni o tappe della sua cura. Di un temporale gli è rimasto impresso il grandinare dei «chicchi» che riportano in primo piano gli occhiali. L'attenzione si sposta dalla funzione, il vedere, allo strumento, strumento però meccanico, artificio della tecnica, a protezione degli occhi e dagli occhi. Marco mostra a un certo punto, in contrasto con le espressioni alienate alle quali si è finora attenuto, slogan e formule trite accompagnati da atti oscuri o violenti, di essere in grado di selezionare in un contesto visivo ciò che marca l'apparire all'esterno di un apparecchio della psiche: da un manifesto che presenta un'esposizione estrae e pronuncia ad alta voce la parola: occhiali. Occhiali. A che cosa servono gli occhiali? Gli occhiali avvicinano gli oggetti e per avvicinarli in un certo senso li ingrandiscono. Migliorano la visione, permettono di vedere più chiaro, ma al tempo stesso hanno in sé qualcosa di minaccioso: dilatano i globi oculari dei loro portatori, rendono gli occhi più lucenti, portano le immagini delle cose in una prossimità che contiene il rischio di annullarle, in quanto immagini, producendo l'urto della cosa stessa e dell'apparato psichico: come per i granelli · che tempestano le lenti. Gli occhiali introducono nell'universo omogeneo dello psicotico delle differenze di grandezza, ma solo nel senso della maggiorazione. In modo che se il sigarone del babbo è più grosso da ciò 18

non consegue che quello di Marco è più piccolo. L'ingrandimento non permette qui di ridurre l'angoscia di un confronto che vede Marco testa a testa col padre, che chiama sempre col nome proprio, come un pari. L'identificazione è resa perciò solo più immediata. E ne nasce un altro discorso. Marco riferisce che andrà con A. (nome del babbo) in città a farsi tagliare i capelli. Ma soprattutto si compiace nel raccontare che in città i capelli li mettono anche, come ha visto da una pubblicità cinematografica di una ditta che applica parrucchini. Questo argomento lo attira e lo induce a riprenderlo ripetutamente. Uno dei motivi per cui gli psichiatri disprezzano spesso la psicoanalisi e si negano all'impiego di metodi psicoterapici con gli psicotici mentre volentieri ritornano ai farmaci o a tecniche di manipolazione comportamentistica (tanto sono psicotici!), sta nel fatto che nella psicosi verità e genitalità tendono a coincidere. Lo psicotico fa dei passi nella direzione della verità che lo causa ma su questa strada l'interpretazione non lo può seguire giacché è allo stato di seme che la genitalità lo riconduce saltando la cerchia della sua soggettivazione. La vita dello psicotico si è separata anticamente dalla sua ragione e questa ragione esiste ma conservata, secondo la mirabile intuizione di Ludovico Ariosto, a una distanza equiparabile a quella che separa la terra dalla luna, in un'ampolla che corrisponde alla sacca, al Grande Vano Unico, l'alloggio mitico di cui il nevrotico sogna ma che allo psicotico è il condom in cui il suo delirio coabita col godimento interminato del padre. Da qui l'impasse e la rinuncia dello psichiatra, stanco di pagare con regressioni e passaggi all'atto ogni brano di interpretazione riuscita. A un'«interpretazione secondo la protesi» avevo dedicato un mio seminario in Spagna che agli organizzatori parve solleticare nel titolo un certo risolino... Giustifica19

to però giacché il riferimento al «ricambio» che l'idraulico avrebbe dovuto fornire a Hans e il fabbro al bambino di Melanie Klein del breve scritto sul Romanzo familiare in statu nascendi, è implicito nella nozione psicoanalitica di protesi3. Ciò che importa ad ogni modo rilevare è che tale aggiunta come il berretto acustico applicato da Freud sulla rappresentazione dell'Es, rompe una simmetria, introduce una disparità, produce per il bambino la possibilità di un calcolo raffinato che gli permette di imprestare a qualcun altro il «pezzo» così resosi disponibile: per allungare il fapipì della giraffa o per rendere Melanie Klein un po' più uomo4 • E con questa «restituzione», che ripristina la credibilità delle teorie sessuali infantili di contro al terrorismo della rivelazione genitale, l'impasse di cui prima parlavamo appare aggirabile. L'aver accettato di pagare per un'ora d'analisi che non era chiaro se per colpa sua o delle circostanze egli aveva perduto, è ciò che permette a un giovane psicotico di cui mi si parla di avanzare per un tratto sul terreno di una sua trepidante verità soggettiva. La cura posta dallo psichiatra, quasi d'istinto, per lunghissimo tempo in una cosa così frivola e distraente dai contenuti drammatici del caso, intrisi di genitalità, solo nel mercanteggiare sull'orario al fine di disporre di un'ora in più, di un'aggiunta svolazzante come un parrucchino, tiene in un certo senso a freno la regressione. Attorno a questo artificio di farsi mettere i capelli aleggia però un che di perverso. Marco si lamenta spesso che il padre gli strappa i capelli e fra le comparse dei suoi terrori, accanto al nero e allo zingaro, vi è anche il calvo di cui lo colpisce la possibilità che si faccia ripristinare una chioma. Notiamo tutti i fattori della sindrome di aggrappamento: la tendenza a nascondersi (il nero), il rapimento (lo zingaro), il pelo, la ricerca. Ci si aggrappa alle proprie origini, e Marco è sicura20

mente in cerca di qualcosa cui aggrapparsi tant'è vero che in un'occasione si attacca convulsamente alla giacca di pelo della sua terapeuta. Questo avviene però con la giacca che non copre le spalle della giovane donna ma è posata sulla spalliera di una sedia, staccata quindi da lei. L'aggrappamento è sempre funzione di un distacco, di un allontanamento ed è per questo che possiamo dire che non vi è aggrappamento che alla protesi. La protesi non è qualcosa di fisso, di rigido. È un movimento. Infatti si colloca nel luogo della fobia che è una rappresentazione ferma in cui entra un movimento: l'andar contro il vetro, la mucca di Darwin, il carro di Hans5 • Il movimento della protesi è un va e vieni da e per il posto dell'origine. Quale l'impulso del ladro del berretto di Freud se non di allontanarla dal suo luogo diciamo così naturale, di creare una distanza tra la testa di Freud e ciò che la ricopriva? La perversione averte la protesi dal luogo dell'origine, godendo di questa separazione che serba, per un tempo, l'impronta dell'originale. Il reimpianto dei capelli che affascina Marco è d'altro canto il venir meno, l'offuscamento della protesi, per il suo innestarsi nella sede naturale. In questo modo mentre nel perverso c'è la volontà di animare il feticcio, come un burattino che viene manovrato, lo psicotico invece subisce l'animazione délla protesi che fagocita un campo crescendovi a dismisura. ·Per il perverso è così sempre sottesa l'origine naturale e quindi la possibilità della psicosi in quanto egli sa che il suo calco, il feticcio, serba dell'originale un'orma fugace e può farsi impellente per lui la spinta a una presa di vero, allo strappo della cosa stessa. Il perverso gioca a nascondersi con la possibilità della psicosi. E a volte si fa scoprire. Della psicosi invece c'è da dire una cosa importantissima che getta luce su un dato di esperienza comune, quello che indica come sovente un delirio incominci dalla 21

frattura di un arto, dallo spezzarsi dei legamenti di un'articolazione, dalla rottura di una rotula, da un ginocchio dolente. Ebbene la legge che qui ci si evidenzia è che la psicosi si innesta al posto di una protesi. La sua sede naturale è in un certo senso quel punto di arresto nel quale l'applicazione di un congegno artificiale sarebbe teoricamente in grado di ripristinare la capacità di muoversi. La psicosi sta al posto di una protesi. Un posto preciso, dove non c'è confusione, se non nell'interpretazione psichiatrica. Lo psicotico sa dove andare. Ma diversamente da Edipo trova la maniera di non arrivarci dato che il lume che perde, conoscendo la strada, è quello della ragione. Il bambino che tiene la manica del golf della mamma, la bambina che stringe la gamba del letto in cui la mamma giace malata chiedendo se fa male sono spie dell'importanza primordiale della protesi, che in una forma o nell'altra, aggiungiamo ora a integrarne l'arredo, fa sempre la sua apparizione nel luogo della fobia. Nei lontani, confusi ricordi di un giovane l'analisi portò alla luce la cabina dove rimaneva solo e la parete di legno contro la quale picchiava dei colpi angosciati cui rispondeva, al di là, la presenza di qualcosa di mostruoso: forse; a posteriori, le grida di un bambino oligofrenico, o qualcosa comunque di così terribile da racchiudersi nel simbolo di un'anomalia naturale. Come un flash nel corso della ricostruzione di questa scena traversa i pensieri un oggetto lucente, forse una tenaglia da dentista, o un apparecchio per non tenere la bocca chiusa. Quel bagliore freddo della protesi imprime sul luogo della fobia il sigillo dell'originale, ne fa il luogo in cui si compie la trasmutazione degli elementi, dei «geni» di un'eredità, la «costituzione» freudiana, i mille cunei darwiniani, nella forma di un'individualità. Che cosa mantiene la protesi nel luogo della fobia dove l'albero si riproduce nella mappa come passando in 22

un'altra dimensione, ma nella continuità di un nastro di Moebius e il disegno non prende la mano fino a produrre una sconfinata Flatlandia ma sprofonda nella rimozione delle abilità motorie lasciando come traccia l'incisione interiore di un apparato capace di vita spirituale? O in altre parole che cosa passa tra la pianta e l'albero? La questione che ora ci si presenta è questa: come si produce nel soggetto una modificazione reale? Se l'interpretazione secondo l'origine rischia di far germogliare quei semi di follia che sono sparsi ovunque e precedono la nascita stessa di un essere umano, come può funzionare quella che ho chiamato un'interpretazione secondo la protesi? Già questa interpretazione, se è vero che la protesi appartiene al luogo della fobia, ha il significato di proporre una diversa origine: l'origine dell'uomo dal luogo della fobia. Ove questo luogo non sia segnato, non sia stato in un modo o nell'altro rappresentato, allora spetta alla cura analitica portarne in qualche modo a esistenza la mappa. Quattordici anni di psicoanalisi non produssero, nell'esempio cui voglio accennare, nonostante la più sincera disponibilità ad accettare le indicazioni interpretative dello psicoanalista, alcun effetto finché qualcosa non materializzò nella perfetta trasparenza di uno spazio vuoto, da due lenti inutili, un paio di occhiali. La persona in analisi li indossava, senza vera necessità, da quando era giovane e aveva pensato, adottandoli, di potersi conferire un aspetto più maturo e professionale. Un giorno lo invitai a deporli e a lasciarli lì, nel luogo stesso dove si svolgeva la sua analisi. E fu allora che poté affacciarsi alla sua mente un collegamento veramente inedito: quello tra il sogno a occhi aperti di vincere al totocalcio una somma enorme, dei miliardi, sogno che si concedeva con regolarità la domenica mattina, e un sentimento di gelosia verso un uomo. Il sogno poi di essere attirato da un vecchio dentro un cilindro di vetro traspa23

rente contenente un liquido biancastro misto a vino rosso, unito all'improvviso pensiero che le lenti tenute costantemente davanti agli occhi avessero come unica funzione quella di mostrare se stesse, il proprio disegno rotondo di due palle, illuminarono per la prima volta un mondo trasformato nel paradiso spermatico di un interminato godimento paterno, inferno del paziente che vi è ancora immerso e non cessa di inebriarsene. Il luogo della fobia coincide in questo caso con la protesi ed è solo dal loro scollamento che emerge il disegno così uguale all'originale da potersi dire ricalcato. Cadendo in un campo che per l'analisi di Marco è il luogo della supervisione della sua terapeuta, il tuono della voce di suo padre, il Cantore, può disperdersi in lontananza. Al posto dello scollamento dato dalla privazione degli occhiali, qui abbiamo, per effetto di un prolungamento del percorso della parola, una ricongiunzione rivelatrice che opera una specie di riconciliazione: se la voce del padre risuona ancora così lontano dal luogo della cura, benché Marco ovviamente non lo sappia, allora il terribile brontolio nella stanza vicina non è la minaccia di un sicuro prossimo annientamento, ma il residuo bonario di una scarica già trascorsa e ormai lontana nel tempo e nello spazio. La ricongiunzione logica, cognitiva, del tuono e del fulmine permette di ridisegnare una terza formula del1'origine che non riguarda più l'origine della follia di Marco ma l'origine di Marco. Si effettua nella cura, col ritardo del tuono sul fulmine, il recupero di quella prima rappresentazione esterna dell'apparato psichico al cui mancato configurarsi è da imputare l'insorgere della psicosi. Marco racconta un giorno come suo padre ha costruito la casa nuova in campagna. Faceva tutto con le sue mani, impastava il cemento posava i mattoni. Le esclamazioni angosciate: Pentoloni! Pentoloni! Si appiccicano, si appiccicano i giorni! non hanno più ragione di 24

essere davanti ad azioni operose e pacifiche. Da cantore il padre è divenuto artigiano. E a ritroso rispetto al piccolo Hans, che esce dal luogo della fobia rappresentandosi un possibile intervento artigiano, è a questo punto che Marco pone mano al tracciato del suo luogo della fobia. Con la stessa precisione con cui aveva notato che il tuono era caduto in un campo, osserva che sì suo padre aveva fatto tutto da solo, ma lui lo aveva aiutato e proprio nel fare la recinzione alla casa. Una recinzione, come si premura egli stesso di rilevare, che meglio non potrebbe tradurre il nostro concetto di barriera molle formata com'è non di mattoni ma da una rete metallica. Una rete può funzionare in tanti modi. Tesa intorno a un campo serve soprattutto da protezione. E vale a garantire che il combattimento non degenererà, non richiederà l'intervento di rinforzi a sostegno delle due parti. Questo impiego può applicarsi in un certo senso alle regole del setting e al contratto che le regge. Lo psicotico però non vi è tenuto. La terra dello psicotico non è né piatta, come il campo da gioco, né rotonda, come il pallone che lo solca. È alta e larga, configurabile da due linee che si incrociano come gli assi cartesiani. Sono i due assi di una folle colonizzazione del sesso materno che diviso per il lungo lascia al figlio il possesso di un semplice pezzo di carne, il clitoride che per essere privo di sbocco e di uretra non assurge alla dignità funzionale di un organo; diviso per il largo invece il sesso della madre esclude lo psicotico da quel circuito completo della pulsione che fonde la via che sale, percorsa dagli spermatozoi, con la via che scende dell'essere partorito. L'impossibilità che la via che sale e la via che scende siano la stessa via, il divieto dell'incesto, ecco la difficoltà contro cui si ribella lo psicotico e per superare la quale tenta l'assurdo patto di dividere a metà con il padre l'organo genitale della madre. Equa ripartizione che lascia però lo psicotico in ginocchio come Michelangelo ri25

trasse se stesso con in mano le spoglie svuotate del godimento del padre. La revoca delle teorie sessuali infantili ridicolizza il tentativo di ristabilire la misura del «piccolo»: il clitoride non è un piccolo pene. E dopo aver steso la sua rete Marco torna alle prese con i pennarelli che riprende a far ballare. Esasperata, la sua terapeuta compie l'unico gesto che può sbilanciare felicemente Marco dal suo ostinato testa a testa col sigarone del babbo. Lo invita a buttarle i pennarelli che sta maneggiando con chiusa cupaggine. Il ragazzo si illumina e ubbidisce, riprendendoli poi quando la giovane glieli rimanda al volo. Che cosa è successo? E in che cosa questo episodio, questa gioiosa regressione a due, differisce da un passo falso capace di innescare il meccanismo del passaggio all'atto libidinoso o aggressivo spesso scatenato anche da una sola occhiata o da un gesto minimo? Si manifesta qui il valore positivo di quel lontano errore iniziale: l'esser stato trattato da principio come un piccolo paziente è divenuta man mano condizione e presupposto del miglioramento di Marco. Forse è a partire dai sassini da lui portati per qualche tempo in pagamento che la dimensione del «piccolo »si è resa recuperabile, riscattabile potremmo dire, sia pure nella modalità ancora ambigua, dall'esito incerto, non del «deposito di una unità di misura», ma dell'impersonarla incarnandola tardivamente. Appendice Il racconto del caso del «piccolo» Marco ha molti punti di contatto con il racconto di Hoffmann L'uomo della sabbia sul quale Freud si soffermò nel suo studio del «perturbante». Punti, coincidenze che ci fanno ammirare 26

tutti gli inviluppi, nel senso «genetico» che il Vallisnieri dà a questo termine, che legano il caso portato in controllo all'esperienza prima avutane in terapia e questa a Hoffmann e a Freud, ponendo questioni che toccano la funzione della teoria e il suo rapporto con la fantasia. Che cosa viene prima? E che cosa è più fondante, per la cura, tra le teorie dello psicoanalista controllore e la confabulazione di Freud con Hoffmann? In realtà la questione dell'origine e dell'originale può essere chiarita solo spostando il significato di questi «inviluppi» dal terreno della genitalità in cui rappresentano l'avvitarsi del soggetto nell'imbuto di una serie di identificazioni paterne, al dominio di strumenti invece come il cannocchiale che Freud, dopo averne fatto una rappresentazione dell'apparato psichico, scorda qui di usare, e in cui facciamo rientrare anche ciò che abbiamo scoperto, circa l'origine dell'uomo, del rapporto della protesi e dell'apparato psichico nel luogo della fobia. Ricorre nei due racconti il motivo della sabbia gettata verso gli occhi, verso perché nel nostro caso il pericolo di perdere gli occhi è scongiurato dall'interporsi di un paio d'occhiali. Nella sua interpretazione Freud collega il timore per gli occhi al «complesso di evirazione» di cui sottolinea l'enorme importanza nella vita psichica dei nevrotici. Con quest'ottica egli trascura però di considerare la singolarità dell'apparire nel testo di Hoffmann del nome di uno scienziato come Spallanzani che si segnalò fra l'altro per gli studi sugli «animaletti delle infusioni» e gli esperimenti di fecondazioni artificiali. In realtà non di evirazione si tratta ma di eiaculazione, di un getto, rappresentato dal pugno di sabbia negli occhi, di cui Nathaniel segue l'iter giù dalla torre. E fuori campo, sfocato, rimane anche il ruolo dell'ottico Coppola, ridotto da Freud a una faccetta dell'imago paterna, e che incarna invece, nel modo più pregnante, accanto a Spallanzani, con la sua offerta di occhiali, la 27

funzione da me indicata della protesi. Coppola-Spallanzani. Spallanzani-Coppola. Nel racconto Spallanzani è diventato un fisico, anzi un meccanico, e ha costruito la «bella bambola di nome Olimpia» che sembra viva e di cui si innamora il protagonista. Accanto a lui l'ottico Coppola propone il movimento inverso dell'inanimato che si trasforma in animato, offrendo occhiali che sono occhi. In un gioco continuo di riflessi e di inversioni, il Mago della sabbia rappresenta in un certo senso il rovescio del caso Hanold-Gradiva. Mentre là una donna, servendosi tra l'altro, come vedremo un'altra volta, di tecniche non interpretative ma regolative, strappava il protagonista alla follia, qui una donna ve lo precipita. In questo caso è la fidanzata infatti che, invitato Nathaniel a trattenersi in città il tempo di salire sulla torre più alta per vedere in lontananza un cespuglio grigio che si anima e prende ad avanzare, è la fidanzata che.si para, col suo volto innocente, davanti al cannocchiale che Nathaniel, dietro suo invito, punta prima di schiacciarsi al suolo, verso «foreste profumate dalle quali sorgevano le montagne azzurre come una città di giganti». È il buon senso, l'equilibrio, la ragionevolezza che lungo tutto il racconto mostra la sua fidanzata, a proiettare Nathaniel incontro a quel fremito della natura che è non il ritorno all'inanimato, Thanatos, ma il ritorno dell'animato in commistione con l'inanimato, il pullulare della sabbia che diventa, biblicamente, promessa di cespuglio ardente, un popolo. Bisogna che niente si risolva, che gli orizzonti rimangano stretti, l'ho mostrato in un recente articolo sul rapporto tra psicosi e «necessità», perché un miglioramento della sua vita psichica diventi sopportabile allo psicotico6. Giusto il contrario di ciò che avviene, nel racconto, a Nathaniel che, dopo aver ricevuto una grossa eredità che lo libera da tutte le preoccupazioni, si avvia, sembra rin28

savito, alle gioie del matrimonio. A perderlo non è, paradossalmente, la paura dell'evirazione, ma la prospettiva del suo superamento. Spesso si è confuso, e Freud non manca di notarlo, il «perturbante» con lo «psicoanalitico». Qualcosa dell'effetto, diciamo così, conturbante e della nostalgia provati da ciascuno verso l'organo genitale femminile è rimasto attaccato alla psicoanalisi nonostante il chiaro avvertimento di Freud che il tradimento della teoria sessuale e del suo non conoscere la vagina, si imparenta con l'occultismo. La clinica ci mostr:a d'altra parte ad ogni passo che è sui frantumi delle teorie sessuali infantili, i frantumi di cui è formata l'isola sulla quale un piccolo paziente perverso ambienta sogni di nozze e gravidanze, che poggia la perversione, mentre la psicosi se non coincide con quei frammenti (schizofrenia) ne è bersagliata come da schegge dall'esterno. Si tratta in definitiva di oltrepassare il divertimento che può dare la battuta di Marco allorquando la terapeuta gli appare con le labbra insolitamente colorate di rosso: «Oh! ti sei tinta i baffi!», e di afferrare la terribile alternativa: porti il marchio del godimento di mio padre e perciò ti o mi distruggo, di contro a: leggo sulle tue labbra non il marchio evidenziatore della tua femminilità ma il nome del luogo dove rimettono i capelli. Questa seconda lettura lascerebbe sperare per Marco un'evoluzione simile a quella che permette a Hans una volta disegnata la topografia del luogo della fobia di entrarci, di soggiornarci e di esercitarsi a passare da una parola a un'altra, da Giraffe a Graf,7 mediante le attribuzioni e gli spostamenti di un tratto che, migrando sui corpi dei familiari, si distacca infine e presenta, come ad opera di uno stagnaio, la saldatura, nella lettera i, del significante primo e della unità di misura. Lettura che attesterebbe il possibile ritrovarsi di Mar29

co, come gli altri bambini, nel luogo della fobia a compiere come Hans quella manipolazione tecnica del nome del padre capace di conseguire il risultato cui si applicano Richard o Eric nei riguardi di Melanie Klein: a ristabilire, con l'aiuto di fabbri, stagnai e parrucchieri, misura e funzione del «piccolo». Ma risaliamo sulla torre. In basso, in piccolo, un personaggio della serie paterna secondo la lettura di Freud. Funzione del cannocchiale sarebbe quella di ingrandirlo, di invertire il rapporto tra Nathaniel e il padre, giacché al padre piccolo laggiù, corrisponde Nathaniel in cima alla torre pronto ad essere gettato al vento tra i semi del godimento paterno. (Come è terribile il «piccolo Flechsig» locuzione nella quale Schreber calca ripetutamente la parola piccolo!) Per questo sulla torre c'è un cannocchiale. Ma il cannocchiale non viene usato così. Puntato verso l'infinito coglie di fatto il viso tondo della donna, che invece di essere in funzione del nome del padre, al servizio della tecnica (abbiamo visto nel disegno del rebus il nome della madre crittografia dell'attività amorosa del padre), manca questa trasformazione cioè la trasformazione di un magmatico, sfrenato godimento paterno in misurazione, in cui però al padre viene riconosciuto l'attributo di grande giacché il bambino assume per sé quello di piccolo a sanzionare una sproporzione che impedisca l'incesto. E mancando questa funzione, è l'immagine del viso della donna che diviene das Ding, l'anti-silhouette, ciò che viene prima della silhouette e alla quale la silhouette si oppone, quando segna insieme con il disegno della mappa del dazio, nel luogo della fobia, la prima rappresentazione esterna dell'apparato psichico. Manca qui ciò che funziona in Gradiva, un'interpretazione attraverso la protesi, il gioco del calco che si introduce continuamente tra Hanold e l'originale. A un sogno, un mio paziente associa il compito che, 30

durante una vacanza, gli era stato affidato: strappare ogni filo d'erba da uno spiazzo. Il sogno viene a frapporsi, come il calco, e funziona come un'interpretazione attraverso la protesi, tra lui e il crescere dell'erba, richiamo al discorso darwiniano sulla fecondità. Nel sogno il paziente è in alto su un balcone e guarda giù «il fondo di un abisso senza fondo» (il comune fondo psicotico), e sul fondo di questo fondale compaiono un gatto bianco e un gatto nero. Il gatto nero è l'attore Tony Curtis: ecco il corto, rispetto all'alto, vertiginoso, del balcone. Il gatto nero e il gatto bianco sul fondale evocano il disegno della silhouette e la struttura (si ricordi il sogno della bambina: l'uva bianca l'uva nera e la nonna che lavorava) dell'apparato psichico. (Anche il sogno del paziente viene associato a un mago, il mago Houdini che si era fatto calare attraverso un buco sotto la superficie ghiacciata di un lago. La corda si ruppe e il mago riuscì a ritrovare la via per uscire solo nell'istante, come venne a sapere poi, in cui sua madre moriva). Sulla torre invece, nessuna protesi richiama la silhouette, e mentre la figura paterna rimane piccola ai suoi piedi, das Ding campeggia minacciosa, e i cespugli avanzano a inghiottire Nathaniel come i cespugli della foresta di Arden camminano verso Macbeth. Sergio Finzi 31

NOTE 1 «Il piccolo Hans», 48, ottobre-dicembre 1985. 2 «Il piccolo Hans», 50, aprile-giugno 1986. 3 Cfr. Finzi Ghisi V., Funzione dei residui in psicoanalisi: il sapere protesi del corpo, «Aut Aut, 177-178, maggio-agosto 1980; Didascalie per una clinica psicoanalitica: chiarimenti sulla nozione di protesi, «Il piccolo Hans» 47, luglio-settembre 1985 4 Cfr. Finzi Ghisi V. e Finzi S., Nel disegno del rebus: manipolazione del nome del padre e deposito di una «unità di misura» nelle teorie sessuali infantili, «Il piccolo Hans», 50, aprile-giugno 1986. 5 Finzi S., Il posto dell'Origine nel riconoscimento della psicosi, «Il piccolo Hans», 48, ottobre-dicembre 1985 6 Finzi S., Il soggetto, le sue "misurazioni" e la psicosi, «Alfabeta», 88, settembre 1986 7 Finzi Ghisi V. e Finzi S., Nel disegno del rebus, cit. 32

La forma logica. del luogo della fobia preliminare a una comprensiofre della schizofrenia La terra, recintata, separata, sottratta, era divenuta il residuo arcaico che, nella sua mancanza, svelava nell'operaio la natura di servo; e, insieme, il luogo dove era reperibile il tratto di identificazione della classe nel modo di produzione capitalistico. L'arcano dell'accumulazione nell'inconscio che allora 1 esaminavamo parlando di «forma naturale e forma logica» come di un presupposto marxiano allo studio del Capitale così come Freud sembra assumerlo dandoci a sua volta le linee di una rimozione originaria a formare il nucleo, al pari dell'accumulazione originaria per il capitalismo, di possibilità dell'inconscio; l'arcano dell'accumulazione nell'inconscio è venuto in questi anni rivelando il suo collegamento con un tratto-di-terra. Una terra, recintata, separatfi, è arrivata a rappresentare il nostro luogo della fobia. Ed è anch'essa una terra in qualche modo sottratta, se sempre di uno scarto, di una mancanza si configura: una porta murata, una stanza dell'appartamento vicino, il cancello esistente cancellato nella raffigurazione della pianta del Dazio che il piccolo Hans ci ha lasciato. Quando parlammo dell'arcano dell'accumulazione nell'inconscio, esaminando la struttura data dal capitale, osservammo come una «classe» si definisce attraverso un tratto, un tratto assai simile al tratto unario che ci 33

dà in psicoanalisi lo schema di uno dei tre sistemi di identificazione possibile. Un tratto-di-terra, residuo logico della politica delle recinzioni, che rimaneva in una forma logica a segnare la classe operaia nata sulla figura del servo. E il fatto che di terra sottratta si trattasse ci permetteva anche di definire quella pseudo-classe altrimenti inafferrabile che è l'insieme degli intellettuali, che è stato, almeno fino a un certo momento, il disagio nella teoria delle classi, fino a quando cioè, e se, gli intellettuali non si sono assimilati a un modo di produzione schiettamente economico. Ma fino a quando ne scrivevo, quindici anni fa, essi rappresentavano ancora «un imbarazzo», e un imbarazzo ha come correlativi, da una parte l'angoscia, dall'altra l'inibizione. Fin da allora, cioè, la teoria aveva come fondamento il riferimento a un luogo, che era tuttavia un fondamento puramente logico, e non a caso ogni teoria, quella di Marx come quella di Freud o come quella di Darwin, sembra trovare la sua collocazione in una struttura analoga. Le teorie, le grandi teorie, si costruiscono tutte a partire dalla teoria prima, quella che consente il costituirsi del soggetto in una sua entità divisa, dalla divisione del nome del padre, in quella fonna logica che è il luogo della fobia. Irreperibile altrimenti, esso appare quando in analisi i residui arcaici sui quali si coordinò l'identificazione del soggetto si animano della stessa angoscia a cui quel luogo era stato risposta2 , ma nello stesso tempo, superano gli ostacoli che l'inibizione, che da quel luogo ha preso avvio, ha successivamente costruito sul cammino del soggetto. Come a dire che fobie e inibizioni che costituiscono per lui delle «costruzioni di difesa» contro un'angoscia che non c'è più, finiscono di apparire incomprensibili e arbitrarie, e per ciò stesso finiscono di difendere, nell'ap34

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