Il piccolo Hans - anno XIV - n. 53 - primavera 1987

Il «Che vuoi?» mette in movimento, in ogni senso. Intanto: se accettiamo che si faccia sentire in un testo, quando vi si fa sentire? Qualche riga più sopra, con una certa precipitazione, ho scritto: al suo inizio, ogni testo letterario eccetera - dando per scontata la nozione stessa di inizio -del testo. Invece l'interrogazione che mi viene posta come lettore, eccola allargata pregiudizialmente a mettere in gioco, fra tante peculiarità del testo, anche quella del suo cominciare e dunque del suo finire. Per il momento, si può riformularla così: c'è un punto dove comincia e dove finisce? e ancora meglio, per investire il nocciolo della questione: un testo, in quanto scrittura, è terminabile? 2. A questo punto, si sente rintoccare un titolo freudiano famoso. Il ricalco non è affatto casuale. Spostata al testo poetico (stabilisco di chiamare così, d'ora in avanti, ogni scrittura letteraria, corrispondente a una certa natura genetica e funzionale, senza preoccuparmi troppo delle distinzioni correnti fra «prosa» e «poesia»...), la querelle sulla fine rivela senza fatica talune omologie con il discorso a proposito dell'analisi, soprattutto per quanto riguarda il modo di affrontarla, e il valore attribuibile al fatto stesso di proporla. L'idea che un testo finisca (o non finisca) sta in rapporto stretto con ciò che è reale. La scrittura poetica - escludo dunque al momento la scrittura scientifica in senso lato o rigorosamente referenziale, ma non la scrittura storica né quella filosofica2 -si produce, vale a dire: viene avanti, come fiction. Direi di più: essa si ostenta, di là dai formulari retorici che spesso vogliono garantirne la corrispondenza a una realtà predeterminata, come finzione, fingendo la propria finzione, sola risorsa d'autenticità - in questo, prodotto umano per eccellenza, se è vero che l'animale «ne feint pas de feindre»3 • 192

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==