Il piccolo Hans - anno XIV - n. 53 - primavera 1987

contatto con l'origine naturale delle cose, fonte del suo terrore. Il controllo infatti, notammo all'inizio, avviene su una copia, su un calco dell'esperienza terapeutica. Davvero come in una seconda nascita Marco può farsi luce attraverso la massa collosa che lo ingloba, che gli riempie la bocca e gli copre la testa e incominciare a descrivere un reale in cui tutto, dalla minaccia paterna di bollirgli il capo nel brodo alla curiosità per la gomma da masticare che si appiccica ai denti, al timore che lo schiaccia al suolo e gli fa esclamare, ripetutamente, «si appiccicano, si appiccicano i giorni», tutto fa comparire a questo punto, quasi colorandola chimicamente, la sostanza invisibile che è il succo del godimento di suo padre. Di questo godimento, che si concentra per il padre cantore del coro cittadino, nella voce, Marco è il prodotto e il prigioniero. Lo spiraglio che per lui rappresenta l'essere della sua psicoterapeuta in controllo, mentre lo sottrae al rischio terribile di un faccia a faccia con l'oggetto della passione supposta al padre, rischio talvolta precipitato in violenti passaggi all'atto, permette l'emergere di un nuovo registro percettivo, da acustico a visivo, e l'avviarsi di una «carriera» che ricollocando la psicosi al confine della perversione avvicina anche la possibilità che venga disegnata la mappa dove si reperisce un soggetto. Marco incomincia sia pure per cenni a parlare della scuola. E nella scuola, nel cortile, ambienta, in particolare, lo scenario modificato di quel suo gesto di averne... abbastanza che mi ricorda la frase di un padre a proposito del tempo in cui suo figlio non era ancora nei suoi coglioni. Marco dunque racconta che a scuola fa ballare la ghiaia del giardino e che questa gli colpisce gli occhiali. La moltitudine dei pennarelli che come tanti piccoli peni, sommandosi, paiono poter eguagliare il «sigarone» del padre, e sigarone chiama Marco anche il proprio 17

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