senso, nel mancare subito e assolutamente di lena, nel risolversi in una smorfia stupefatta e persuasa, una specie di ghigno. Una delle due lettere amorose che troviamo qui è di mano femminile - «Cuor mio», comincia così, e poi «mia vita», «mio bene»-, e ha un tono fondo di delusione e rinuncia impotente, col quale la confessione e la logica di un desiderio riescono persino a prevalere sulle maniere barocche della letteratura galante; che invece coprono interamente l'altra con segni logori e facili, quasi per mentire svogliatura e arguzia. Durante quel soggiorno in Germania aveva conosciuto un ufficiale francese, e con lui aveva discusso a lungo di cristianesimo e di religione. Quello era un vero esprit fort, ateo inflessibile, e dovette sconvolgere nel profondo Ferrante, che lo vide subire il supplizio della ruota e professare fermamente le proprie convinzioni fino alla morte. Ferrante, dicevano gli amici, era tornato di là alterato non solo nel viso, ma anche nell'animo; si mostrava immalinconito fino alla tetraggine, qualche volta, bisognava ammetterlo, lo trovavano scostante. Componeva il Corriera svaligiato, naturalmente senza smettere di cercare spunti e occasioni per la sua grafomania; la stessa notorietà che s'era fatto tra i letterati e il pubblico di Venezia, e di cui era geloso, lo arrovellava in rancori incontenibili e disarmati; insomma andava in cerca di guai, secondo gli amici, e loro, in quegli ultimi anni, gli consigliavano la moderazione e lo mettevano sull'avviso, se dobbiamo stare alle dichiarazioni del Brusoni e del Loredano, tardive, in verità, e timorate, come guardinghe autodifese. La scrittura del Corriera, spersonalizzante nel modo che ho detto, trascina e converte quei rancori nel patimento, sordo, del tutto arreso, di una collettiva abiezione, li fomenta, in un certo senso li mortifica, nella visione disincantata ferma, come una perfetta ossessione, di innumerevoli piaghe, tutte incurabili. Tornare a queste 160
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