Il piccolo Hans - anno XIV - n. 53 - primavera 1987

il mondo sia piagato, dappertutto, in ogni elemento, allo stesso modo. Richiamano il biancore ceroso unto di corpi flaccidi, la cosa elementare, qualunque, del tratto e del disegno, che ammucchiano tanta pittura con o senza scuola del Seicento. La parte più sciatta del «giuoco» è il commento di quei quattro «cavalieri della Camera», che s'imbastisce a ogni lettera, e con la sua recitazione, che tritura come una scorza l'argutezza barocca, infinite volte si rifà, rasciugato e stremato dall'abitudine, a calcare ed «esaggerare» la trivialità della materia e a protrarla tra i bisticci inerti e gli apertissimi doppi sensi delle proprie 'moralità'. In questo effetto complessivo·- nella sua forma e nella sua stessa registrazione - è entrato certo il contegno della lettura in morte, non impacciato o assorbito da qualche prima impressione, ma durato fino in fondo, espresso fin nel percorrere l'allumacatura del commento, e nel cavarne quel senso di materiale inerzia, di stremata uniformità. C'è già più di un indizio del lavoro del lutto - ad ogni modo questa lettura si svolge in un'idea di lutto. Il suo «soggetto da amare», disperso nel testo, è un incanto plurale di frammenti (come ceneri, direbbe Barthes, due volte a proposito) della morte che gli fu data. L'avversione - «ben comprensibile» - che questa forma di dispersione suscita è anche un riconoscimento, in una memoria, in un'idea di pena. Ordita da questa modalità e urgenza dell'avversione e del riconoscimento, la lettura interpreta e riordina il testo, dedicando evocazione e «sovrainvestimento» a una lettera dopo l'altra, a un soggetto dopo l'altro. Non c'è alcuna libertà da recuperare nel nostro intimo, nella nostra vita: la durata e la coerenza di questo lavoro del lutto si consumano totalmente nella lettura - appartengono al suo accadere, al suo carattere. È la lettura - si dica appunto la scelta - a progettare e adempiere la propria libertà: lo fa svolgendo nel 145

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