Il filosofo motociclista di Pirsig è figura esemplarmente postmoderna, anche rispetto a quella figurazione che avevamo detto il cuore del mythos moderno, la cui variante postmoderna può essere assunta come tutto ciò che c'è da sapere del postmoderno stesso. Intendo la questione paterna. In superficie, nel romanzo di Pirsig (ma romanzo è la parola giusta? Serve a indicare il carattere spurio - autobiografia, trattato, ciclo di conferenze, raccolta di sermoni... - di questo oggetto?), si muovono un padre e un figlio. On the road ancora, dunque. Ma soprattutto ancora il viaggio, e ancora la mobilità, e ancora lo spazio. Ancora una volta l'America è la superficie piatta, prateria, campi, natura. E ancora una volta in essa si muovono un uomo e il suo cavallo, o la sua motocicletta. Ancora l'americano è l'uomo catturato dall'estensione orizzontale dello spazio: che muove affascinato verso il punto limite della Frontiera. Ma questo viaggio postmoderno non ha come quello classico una meta. Esso non è un intendere separante che nel corso del suo farsi annulla la via mirando soprattutto alla meta; in questo viaggio piuttosto non v'è che strada, e tutto vi appare come ritorno, incessante anamnesi. Questo, che definirei l'effetto Zen del viaggio postmoderno, è invero effetto di velocità. La motocicletta in moto permette difatti l'assoluto isolamento: dal terreno intorno, e tra di loro dei due che la cavalcano isolati. Isolati nella loro moto, il padre e il figlio non sono mai in nessun luogo; non v'è spazio che li contenga - perché il moto buca continuamente ogni recinto. Così essi non appartengono, nemmeno alla terra: non stringono legame con nulla, perché nel suo andare la moto non prende possesso dello spazio, ma costantemente lo abbandona. La relazione allo spazio, alla terra, non è più il fare spazio, il disboscare, e il dissodare: atti arcaici che l'americano ha compiuto nel tempo moderno, perché a lui lo spazio si presentò come vuoto, quando all'inizio dell'epoca 79
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