Il piccolo Hans - anno XIII - n. 49 - gen./mar. 1986

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica 49 gennaio/marzo 1986 Virginia Pinzi Ghisi Aldo G. Gargani Italo Viola Nadia Fusini Giuliano Gramigna Paolo Bollini Imre Hermann 5 Le tentazioni del maestro e la teoria dei due culmini 14 La trasmissione della verità e la figura del maestro 34 Vivere con Loyola? 69 L'eredità postmoderna 82 L'educatore evanescente 92 Sul sapere delle similitudini in Dante 107 Schreber : alcuni aspetti di regressione psicotica. Il « padre insegnante» Paolo Beonio-Brocchieri 131 La trasmissione del sapere nel buddhismo zen Enrica Collotti Pischel 140 La trasmissione del sapere nella Cina confuciana Paola Colaiacomo 165 Il silenzio del greco antico Giampaolo Sasso 180 L'etica della conoscenza nella società informatica Indice dell'annata 1985

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Cont-ardo Calligaris, Sergio Finzi, Virginia Pinzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola. a questo numero hanno collaborato: Paolo Beonio Brocchieri, Paolo Bollini, Paola Colaiacomo, Enrica Collotti Pischel, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Nadia Fusini, Aldo G. Gargani, Giuliano Gramigna, Imre Hermann, Ermanno Krumm, Livia Nemes, Giampaolo Sasso, _Mario Spinella, Italo Viola. .redazione: Galleria Strasburgo 3, Milano, tel: 790517-795557 abbonamento annuo 1986: (4 fascicoli, lire 30.000, e5·tero lire 45.000 e.e. postale 11639705 intestato a edizioni Dedalo spa, cas. post. 362, 70100 Bari Registrazione: n. 472 del 7-5-74 del Tribunale di Bari Fotocomposizione e stampa: Dedalo litostampa spa, Bari.

Il piccolo Hans Revue :trimestrelle d'analyse matériaii.ste Dirocteur: Sergio Finzi Rédaction: C. Calligaris, S. Finzi, V. Finzi Ghisi, G. Gramigna, E. Krumm, M. Spinella, I. Viola Abonement 1 an {1986): 4 numéros: lire 52.500 Edizioni Dedalo spa, casella postale 362, 70100 Bari

Le tentazioni del maestro e la teoria dei due culmini Se continuo in questa sorta di feuilleton a puntate che sono i miei editoriali mi vedo costretta a lasciare il probabile Trismegisto quasi ormai tristemente Tristram lì, tra il lusco e il brusco, che è come dire tra il dentro e il fuori, mentre fa insomma i suoi primi conti con una barriera, anche se questa non esiste più nonostante la provatissima virtù della signora Shandy; e, d'altro canto, e più esattamente in fondo all'orto, a lasciare zio Tobia nel suo diuturno lavorare intorno ad- altre barriere, passaggi, fortificazioni della sua personalissima pianta del Dazio. Se dunque il lettore del Piccolo Hans è oggi tutto nuovo, vergine anche lui come la dedica di Sterne per il Tristram Shandy, non dovrà impazzire nel decifrare nella puntata ciò che è criptico e ciò che invece semplicemente ignora di quanto siamo venuti formulando in questi anni, di fobia, psicosi e perversione, di barriere e di dazi, di nomi e di origine, di godimento e di padri, di protesi e di nevrosi: questo numero infatti è dedicato al «maestro». E per l'occasione racconterò una storiella, molto nota, del resto. Durante un periglioso passaggio in India, la fila dei discepoli cui si accompagna il maestro, inceppa ogni tanto in una tigre e così l'ultimo della fila cade e scompare per lo più tacitamente come un bravo discepolo che niente può trovare impreparato, giacché il morso della tigre in . agguato non è più sorprendente dello sbocciare di un. fiore. 5

Ma ecco che, ultimo della fila forse a meditare, rimane questa volta il Maestro. I discepoli camminano sereni, quand'ecco che un terribile urlo giunge sino a loro. Essi si guardano costernati. Pur senza parlare, è chiara la domanda. Il Maestro è stato attaccato dalla tigre, è evidente. Ma quell'urlo? Ha voluto il Maestro distruggere con sé tutto il suo insegnamento? O ha invece cercato di mettere per l'ultima volta alla prova la loro attitudine a non sorprendersi? Queste le due ipotesi classiche. Per scegliere, bisogna forse chiedersi che cosa è un maestro. Che cosa è una didattica. Che cosa è un allievo. Eccovi il numero. Ma qualcosa voglio dire. Le due ipotesi della storiella si adattano troppo bene a Jacques Lacan per non ricordarlo qui. Il mio ideale di maestro è invece diverso. Anche il mio, per dirla brechtianamente, accompagna i discepoli durante un periglioso passaggio in India. Anche il mio a un certo punto se ne sta indietro. Anche il mio urla. E allora la differenza? La differenza sta che in questa storia, le due ipotesi formulate dai discepoli sono, lacanianamente, già implicite nell'urlo. Vuol dire insomma che in realtà la tigre che ingoia il Maestro sono proprio loro, i discepoli, benché si siano precostituiti l'alibi di camminare avanti come i chierichetti e anche di sacrificare uno o due inter pares per rendere più veridico il fatto. Ma non gli va bene. Perché non gli resta in mano se non da una parte la distruzione, dall'altra la sorpresa. Che, dopo aver cercato di imparare a evitarla per un'intera vita, non è un gran che. Non a caso mi ricordano quel tipo di analizzanti rotti a tutto ma sorpresi dalla folgorazione delle loro stesse trovate, atteggiamento che Freud avrebbe brutalmente denominato resistenza. Il mio maestro dunque non appartiene all'ipotesi. Posi­ . zione non facile per lui, giacché, oltre che sorprendersi, è delizioso, come provano i rotocalchi, farsi ipotizzare. La differenza non è da poco. Essa coinvolge i cosiddetti 6

«discorsi» lacaniani e li mette in discussione, come andremo presto a vedere. Ma parlavamo della tigre. Raccontava Pasolini di essere stato colpito, piccolissimo, dalla illustrazione di un libro, una tigre mangiava un uomo. Una serie di interrogativi si pongono da quel momento nella mente del bambino. Come è farsi mangiare da una tigre? come avviene? Avrà avuto fame la tigre? o forse lo ha fatto per dare da mangiare ai tigrotti? Può in qualche momento diventare persino doveroso farsi mangiare dalla tigre? Con quest'ultima domanda, ormai raffinata, Pasolini arriva alcuni decenni dopo in India a interrogare poveri e maragià, ma soprattutto maestri. È lecito? e voi lo fareste, di farvi mangiare da tigrotti che stanno morendo di fame? Sul tema rimane una sorta di documentario, lo spezzone di un film non fatto di cui però ha cercato gli attori. Pasolini cede infine a una delle due tentazioni del Maestro: farsi amare, farsi odiare, farsi nutrire, farsi nutrimento, farsi vivere, farsi morire. E il fatto che sia una tentazione toglie valore alla prova: forse il suo tigrotto non era neppure tanto affamato. Jacques Lacan ha :passato gran parte della sua vita a sedurre, l'ultima a farsi odiare. Tre quarti a costruire un'associazione, un quarto a distruggerla. Qualcosa di questa «dissociazione» presiede dunque ai quarti di giro che muovono i suoi discorsi, che determinano gli spostamenti dell'oggetto a, insieme con quelli del 7

soggetto, del Sapere, e del nome. Ricordate? �� Si : $ a dalla relazione del significante primo(Si ) con il tesoro dei significanti, l'insieme dei significanti già esistenti (S2 o il Sapere), nasce il soggetto($, barrato) con però uno scarto, un in più, l'oggetto piccolo a. scurabile, piccolo» e per di più mancante, ma non trase è al suo inseguimento che parte il soggetto lacaniano per percorrere, con la rotazione successiva di un quarto di giro per volta, in senso antiorario, l'arco dei «quattro discorsi». Così si passa, come usa elencarli, a quello dell'università, con il Sapere in posizione dominante per un «io-tutto Sapere» S i ��, quello dell'isterica $ ��, e quello S1 $ a S2 dell'analista infine in cui è l'oggetto a a venire in posizione dominante, è esso a caratterizzare, in quanto mancante, la posizione dell'analista, sostenuta dal sapere che è sapere della verità, ��1_. . S2 S1 Ma se io introduco, come ho fatto nel primo discorso, là dove si struttura il soggetto, una barriera: una barriera che ho chiamato «molle», perché ha la sua motivazione nel disegno della pianta del Dazio che ho preso dal caso freudiano di fobia, il piccolo Hans, e che ho sovrapposto allo schema del discorso in cui il soggetto si struttura, una barriera che rappresentava, al di là della strada su cui si affacciava la casa di Hans, il recinto del Dazio, con il suo cancello, che Hans però trascurava, per passare con la fantasia attraverso il recinto stesso, per arrivare alla piattaforma della pesa, sulla quale sostavano i carri, tirati dai cavalli. Se dunque pongo tra il lato del soggetto e il lato opposto in cui alberga il segno del godimento che la nascita del soggetto ha prodotto, una barriera in questo modo S1 S2 · · , ·1 · d. 1 · - 7 - , non s1 1nceppera 1 meccamsmo 1 un oro og10 $ : a che segna il tempo alla rovescia? 8

Se accostiamo le due teorie delle pulsioni, quella di Lacan e quella di Freud, entrambe ci danno lo stesso disegno, una fonte continua, una mèta interdetta, un giro intorno a un oggetto mancante, che Lacan chiama «piccolo a». · Tuttavia è proprio qui che le tentazioni del Maestro aprono la via alla teoria dei due culmini. Intorno a quel piccolo a, Lacan ne accentua la duplicità attiva-passiva, e chiama le sue pulsioni se-faire voir, se faire sucer, se faire entendre, se faire chier. E se qualcosa, lui che ha nella sua grande opera trascurato di fronteggiare la fobia, prende dal caso del piccolo Hans, potremmo dire che si tratta di quel momento in cui Hans, seduto sul gradino del balcone, accanto allo stanzino del gabinetto, spia con ansia il vetro dietro al quale potrebbe apparire la ragazzina di fronte. Anche questo, per me, schema della fobia, il soggetto, il vuoto, l'altra casa, il vetro barriera trasparente ma tenace, e, oltre, l'oggetto del desiderio, ma ciò che in questa struttura Lacan privilegia è il rapporto con il fantasma. Se ho detto che in quel luogo teorico che ho definito «il luogo della fobia», che scandisce un punto centrale nella storia del soggetto, dove praticamente si gioca, con una prima rappresentazione dell'apparato psichico, l'uscita dal fondamento psicotico della nevrosi, attraverso l'angoscia e la risposta ad essa, il futuro del soggetto e le sue chances, psicosi, nevrosi e perversione, se in quel luogo ho ravvisato la contemporaneità di due disegni eterogenei non sovrapponibili, questo cioè della pianta del Dazio, e l'altro, il profilo della giraffa spiegazzata a rappresentare le pulsioni, ma su questo mi propongo di tornare, ecco, tale eterogeneità nel pensiero di Lacan manca. Entrambi i disegni, posto di riuscire a evidenziarli come altrove ho cercato di fare, diventano la rappresentazione di un unico movimento: quello che in Lacan pone il soggetto faccia a faccia con il fantasma. Il suo «luogo della fobia» insompla, il suo Hans seduto 9

a fissare' il vetro di fronte, è ancora il soggetto della pulsione che spia· oltre il vetro la bella fanciulla in cui l'opacità di una tendina ha trasformato il nerboruto capitano che di fatto vi alberga. Ed ecco che la tendina, di cui il vetro lacaniano necessita, ma nei sogni degli analizzanti la barriera non ha bisogno di trucchi, gioca un brutto tiro al pensatore. Se è nel luogo della fobia che abbiamo visto radicarsi la possibilità per la psicoanalisi di divenire teoria, giacché è lì la possibilità per il soggetto di giocare la sua carta «teorica», ricordiamo ancora la nostra elaborazione del caso del piccolo Hans, ebbene, l'invenzione si vendica del proprio inventore. Se, dal lato dei «quattro discorsi», Lacan impone una rotazione, se fa sì con questo in definitiva, che il soggetto possa inseguire il fantasma, perché è questo che fa, quarto dopo quarto, ecco che, se andiamo a controllare gli esiti della rotazione, troviamo che il discorso dell'isterica si trova dopo e non prima del discorso dell'analista, che cioè questo nemmeno volendo è il frutto di una metamorfosi del discorso isterico, ma rivela, nella disposizione che Lacan ci ha offerto malgré soi, la sua vera natura nel discorso che appunto lo segue. Se dunque l'analista pensa di poter imprimere quarti di giro alla posizione del soggetto che, trovato il proprio nome, passerebbe dalla posizione isterica al cosiddetto posto dell'analista, ciò che risulta è che il Maestro pone la sua propria possibilità di fare teoria in una impasse, giacché tale metamorfosi del soggetto non è lo straordinario addivenire nel luogo ambito del piccolo a, o lo è nel solo modo possibile, e cioè che una tenda ha velato il vetro, che è poi il modo di farne uno specchio: e ciò che il soggetto fronteggia e in cui trasforma lo strutturante luogo della fobia, è il riflesso della sua propria immagine, non diversamente dal mostro che, inseguendo la fanciulla che strilla di terrore, a un certo punto protesta: signorina, dopo tutto è lei che mi sogna. 10

Il discorso lacaniano dell'analista è un discorso sognato, anzi è il sogno di un altro discorso, se un discorso è in grado di sognare. Diciamo che f:, �� sogna �� .P... , e a S, S, S, cioè che il discorso dell'analista è il frutto di un sogno del discorso dell'isterico. Evidentemente, la possibilità della fine dell'analisi e quindi l'«iter» per diventare analisti segue altre leggi. Andiamo a considerare ciò che a Freud sembra interessare nella propria teoria delle pulsioni. Con molta risolutezza, innanzi tutto, marca il distacco da Jung: la teoria non è unificabile in un unico disegno sotto il titolo della libido. «Il dualismo era fondamentale per noi e oggi... rimane tale». Ecco l'eterogeneità. Per Freud essa si pone tra pulsioni di vita, o pulsioni sessuali, e pulsione di morte. Ma la pulsione di vita non ha una mèta in avanti, non insegue né godimento, né maturazione, né mutamento, come ìl soggetto dei discorsi lacaniani: la mèta è all'indietro. E qui di nuovo, in filigrana, ci appare il profilo tracciato da Sergio Pinzi nel comme_ nto a Inibizione, Sintomo e Angoscia: dietro Freud appare Darwin. Non a caso del resto proprio in Al di là del principio di piacere il discorso sulla pulsione attraversa crostacei e molluschi, particolari forme di cui nel numero scorso del «Piccolo Hans» (cfr. Sergio Pinzi, Il posto dell'Origine nel riconoscimento della psicosi) ci è stata data la mappa. Le pulsioni sessuali, le pulsioni di vita sono in realtà rivolte all'indietro, hanno uno scopo di ripristino di uno stato antecedente, e se «gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi» ecco che la pulsione di morte si intreccia alla pulsione. di vita che là deve sospingere a ritornare. Silenziosamente e inavvertitamente agisce la pulsione di morte, ma questo intreccio ha nondimeno un punto di visibilità. I due disegni eterogenei che appaiono nel mio luogo 11

della fobia ci danrw le due punte, i due campanili della vista di Dresda dalla terrazza Briihl, e di Le sorelle, e del quadro ispirato a un dramma di von Kleist, i due pennoni di Vista di un porto, e le due. vele, i «due culmini» insomma che attraversano insistenti tutta la pittura tedesca del romanticismo, e nella ripetizione la visione doppia diventa una sigla a tutela del meccanismo che mantiene nella vita psichica la distanza tra allucinazione e rappresentazione. Essi colpiscono lo sguardo con durezza per stagliarsi sia nella bruma di un mattino, sia in quel inizio freudiano che è un tramonto, sia nella luce incerta del sogno. Diverranno l'inizio in due tempi, Leitmotiv anche del seminario di Finzi di quest'anno (Dove cade il tuono? La supervisione dei casi di psicosi) e, nella foschia della fase di latenza che si apre per il soggetto dopo la lucidità del «luogo della fobia», dimenticata la teoria, e le sottili ingegnose armi della tecnica con cui il soggetto aveva mirabilmente regolato il proprio drammatico impatto con quell'antecedente che abbiamo chiamato «inanimato», nella foschia della fase di latenza ne rimarranno i simulacri nei «due poli», irrinunciabili, dell'ossessivo. Ci avviciniamo dunque al compito dell'analisi. Sarà la coazione a ripetere vissuta ormai ip modo insostenibile, modo nel quale si riaffaccia l'angoscia, quell'angoscia cui il luogo della fobia aveva dato la propria risposta, teorica e strutturante, a portare il soggetto in analisi. Le tentazioni del Maestro, imprimere un movimento, mostrano la loro natura di sintomo a confronto con il luogo della fobia che la stessa coazione che prima ha contribuito a coprire fa ora riaffiorare in analisi. E non importa che i quarti di giro .fossero anch'essi all'indietro, in senso antiorario, essi appaiono ingaggiati in una tensione in avanti, in una teoria della fretta, nella stessa lotta contro il tempo che aveva fatto nascere l'idea di una «liberazione» attraverso gli scatti del «tempo logico». Il leone, tranquillamente accovacciato ai piedi di San Gerolamo, vigila sulla 12

soglia del luogo della fobia, dove la presenza dell'animale dissolve con. modalità di cui abbiamo già parlato ma che non abbiamo finito di scoprire, la minaccia di esserne divorati. Il nostro analista sguscia dalla figura del Maestro, e la ricerca della verità in analisi si radica rrella scoperta del luogo della fobia: ed è grazie a quanto vi abbiamo là trovato della funzione di un linguaggio appena appreso, che possiamo sostenere che una cosa è vera perché l'analista la dice, non perché l'analista profetizzi, ma proprio perché non si è mosso, di là non è uscito, e nel disegno fondamentale del discorso in cui nasce il soggetto, egli è ancora lì, ed è talmente così che per lo psicotico per il quale l'analisi sostituisce il luogo della fobia ed è dunque essa, l'analisi, la prima rappresentazione esterna dell'apparato psichico, è grande il pericolo che la corrispondenza dei disegni superi nella coincidenza la strutturale eterogeneità, che cioè paradossalmente avvenga ciò che per la rotazione dei discorsi avviene in sogno, che il soggetto si trovi faccia a faccia con il fantasma. È dunque lo psicotico che ci costringe a riscoprire la tecnica che usammo per uscire da quell'altra psicosi, quella che ho individuato come antecedente e fondamento della nevrosi, un registro sottile, un registro raffinato, un registro astuto, ricordiamo le sottigliezze di Hans di fronte alla differenza tra animato e inanimato, tra morto e vivente, ma tutta la costruzione in analisi si illumina dalla regolazione. Su questo e su non molto altro si fonda sia l'analista che anche la fine dell'analisi. È questo taglio, parziale ma non discutibile, che una cosa è vera perché l'analista la dice, che ci dà, come vedremo la possibilità che, tra due nomi, il soggetto riconosca il proprio. E qui, in questa autorità dell'analista e nel suo rapporto con lo psicotico, è quel tanto della posizione del Maestro che, suo malgrado, vi passa. Virginia Pinzi Ghisi 13

La trasmissione della verità e la figura del maestro Ciò che deve essere messo in discussione è la praticabilità della distinzione preliminare tra significato e verità delle teorie dei pensatori morti. Questa scansione, che Russel e Ayer tra altri hanno concepito come una distinzione netta e precisa, è in realtà una figura fittizia, non un procedimento effettivamente operabile; essa è troppo dimentica di se stessa e del circolo vizioso di cui si alimenta. Infatti, il significato di una teoria non è un assetto univoco e invariabile, ma dipende dal tipo di domande, di problemi dai quali è investita. Il significato di una dottrina filosofica dipende da chi pone la domanda e la verità di essa, che dovrebbe essere presuntivamente discussa e accertata, è in realtà strettamente implicata e coinvolta nel tipo di significato che è stato assegnato alla dottrina di un pensatore morto sulla base delle domande e dei problemi cui è stata sottoposta. Così la «ricostruzione razionale»· del Saggio sull'intelligenza umana di J. Locke operata, mettiamo, da un pensatore neo-kantiano stabilirà un nesso tra l'analisi delle idee da parte di un filosofo inglese del secolo XVII e la Critica della Ragion Pura e quindi trarrà un bilancio filosofico dei guadagni e delle perdite certamente diverso dalla «ricostruzione razionale» operata da un filosofo analitico che misuri l'opera del medesimo filosofo inglese ponendosi la questione se e con quale legittimità Locke abbia inter14

pretato le nozioni di «conoscenza», «giustizia», «diritto» e simili in termini di rappresentazioni interne, di immagini interiori a disposizione del cosiddetto «soggetto percipiente o giudicante», come ha fatto per esempio H. Putnam, il quale ha poi tratto la conclusione che uno dei meriti principali di Wittgenstein è stato quello di aver compiuto un demolition job, un lavoro di demolizione nei confronti di questa tradizione cognitivistico-mentalistica che da Locke si è tramandata appunto fino al giorno della critica wittgensteiriiana. Ma si può escogitare un'intera varietà di «ricostruzioni razionali», e tra le altre, per esempio, quella dell'esponente della Oxford Philosophy of Ordinary Language che misura l'opera di Locke da un punto di vista ancora diverso, e precisamente se Locke abbia invariabilmente assunto le espressioni linguistiche nella forma di termini denotativi, secondo il modello a lungo imperante nella tradizione occidentale di «oggetto-designazione». E nondimeno le cose stanno diversamente, in quanto anziché poter distinguere il significato dalla verità di una teoria filosofica noi vediamo che nella «ricostruzione razionale» il significato, che si presumeva di poter catturare per se stesso, in isolamento, in realtà tira dietro di sé una certa condizione di verità e che, a sua volta, l'accertamento della verità di un pensatore morto pregiudica Il significato della teoria che ci ha trasmesso. Significato e verità si inseguono incessantemente l'un l'altra lungo il medesimo circolo nella ricostruzione razionale, come due fattori che si influenzano prendendo l'uno la rincorsa verso l'altro, mentre apparentemente vorrebbero ostentare un'indipendenza reciproca. Ed è questa esperienza del circolo di senso e verità a segnare la consapevolezza da cui muove la procedura ermeneutica nella conversazione che instaura con i filosofi del passato, con i pensatori morti. La distinzione del piano del significato da quello della verità e la materializzazione di questi due fattori costituiscono l'usurpazione che un certo modo di porre i problemi, un 15

modo di interrogarsi, il tipo stesso della persona che interroga esercitano nei confronti dei pensatori morti e dei testi che essi hanno trasmesso. E invece: quando mi accingo a comunicare e a conversare con qualcuno di loro, io non ho a che fare con gli oggetti distinti del senso da un lato e della verità dall'altro; e non dispongo nemmeno della mia provvista intellettuale di un metalinguaggio o di un supervocabolario con i quali potrei credere di confrontarli e di prendere una decisione teorica intorno ad essi. No, io mi trovo invece di fronte ad una conformazionte testuale il cui significato e la cui verità sono l'intreccio indivisibile che comanda la mia ricerca, la trascina e la fa vivere per quanto la fa trascorrere. Io mi trovo, per così dire, di fronte alla figura piana che rappresenta un cubo. Non ho di fronte a me uno spigolo prospiciente che non possa anche risultare uno spigolo retrostante, e non potrei d'altronde ottenere un'immagine unitaria in cui io possa contemporaneamente contemplare il medesimo spigolo come prospiciente e anche retrostante. Ogni volta dovrò decidere se assumerlo in un modo o nell'altro, e non potrò riguadagnare la prospettiva sacrificata se non tralasciando e sacrificando quella alla quale mi ero attenuto sino allora. E a partire da quell'immagine prescelta e divenuta così influente, comincerò a studiare il cubo, le sue relazioni interne e le sue connessioni esterne con le altre proprietà dello spazio e degli oggetti che lo circondano. E non potrei proprio dire se ho cominciato d·al significato del cubo o dalla verità delle relazioni che su di esso sono state stabilite dalla geometria del cubo. Perché mi sarebbe oltremodo difficile rappresentare o escogitare il significato del concetto di cubo indipendentemente dal discorso geometrico che circonda il cubo, e che lo fa essere appunto un cubo. La relazione tra significato e verità non risiede dunque nella dislocazione che ad essi attribuisce il modulo della «ricostruzione razionale». Ma allargando il discorso oltre i limiti di tale modulo, quella relazione non può nemmeno 16

essere intesa nel senso in cui, per esempio, Nelson Goodman considera una molteplicità di verità che sarebbero a nostra disposizione e conseguentemente indica un'opzione da parte nostra verso quelle tra esse che risulterebbero più importanti, significative e rilevanti a fronte di altre che, pur restando verità, risulterebbero banali, comuni, scarsamente attraenti. La relazione tra significato e verità non può essere così intesa, e cioè estensionalmente intesa, perché essa persiste a replicare la rappresentazione del significato come ornamento della verità, come proprietà addizionale, supplementare di essa connessa con gli orientamenti dei nostri interessi, gusti e aspettative. In realtà, e per quanto abbiamo visto sopra, noi non cogliamo un'istanza di verità che non sia anche un'istanza di senso. E nella misura in cui le separiamo è segno che è ancora all'opera la codificazione dei concetti di verità e di significato in termini di oggetti ritagliabili e perfino numerabili. Di questo passo ci si potrebbe mettere a contare quante verità e quanti significati ci siano in Kant o in Locke e poi fornire un elenco? In realtà siamo ossessionati da metafore di possesso, di raggiungimento del fine, di compimento ultimo e definitivo, da un'intera batteria teologica di metalinguaggi fondativi di legittimazione per continuare a distinguere la verità dal suo senso, o per caratterizzare il senso come l'alone di rilevanza, importanza e significatività che orna nuclei duri di verità già a disposizione delle nostre scelte. Ma l'esperienza storica delle culture trasmesse, cioè la circostanza che apparati teorici sono deperiti nel corso del tempo indipendentemente dal fatto che l'esistenza degli oggetti sui quali erano impegnati (Dio, la sostanza una e indivisibile, la cosa in sé e simili) sia stata confutata, la circostanza che entrando nell'interno dei sistemi filosofici del passato, anziché fortezze, abbiamo trovato davanti a noi cittadelle che erano state semplicemente abbandonate, tutto ciò dovrebbe insegnarci che la verità di una teoria non è separabile dalla condizione di senso su 17

cui la prima ottiene la sua presa; e che insomma la verità è una specie di impronta di un significato influente. La verità non- è più raffigurabile come un oggetto distinto e delimitabile, né è caratterizzabile nei termini del raggiungimento di un fine ultimo. La verità non è la propria teologia con il corredo dei suoi meta-discorsi fondativi e legittimanti; e non è nemmeno un precipitato chimico. Per parte sua, il significato non è uno stato gassoso e variopinto che avvolge le pietre della verità. Ciò che chiamiamo verità ha che fare con immagini influenti che dirigono la nostra vita, che la impegnano verso le linee di ricerca, che la scoprono di fronte ai bisogni che esse stesse inducono, generando la transizione ad un nuovo stato, al nuovo stato dell'urgenza secondo la quale bisognerà cominciare a pensare d'ora innanzi. La verità viene scoperta lungo la direzione in cui essa stessa fa cercare. Vorrei dire che la verità non è paragonabile a qualsiasi cosa che sia un termine, un compimento raggiunto. E che piuttosto essa è definibile come lo stato che genera ricerca, che diffonde un mondo secondo cui è importante o interessante o perfino urgente cercare. La passion· e o la commozione che gli uomini esperiscono per ciò che chiamiamo verità e che essi lanciano davanti a loro come un bersaglio da raggiungere è invece lo stato in cui essi già si trovano e in cui, vorrei dire che riposano, se non fosse che riposare è qualcosa di così diverso dalla voglia di cercare, frugare, alzarsi e anche tormentarsi in cui sono entrati. Un'immagine influente è venuta incontro alla nostra vita, di fronte alla postazione in cui si trovava la soggettività di un uomo o di un gruppo di uomini. Un'immagine influente e convincente ci si è imposta; ed è per via del fatto che era così influente e convincente che essa ha generato il bisogno di cercare, ha generato il bisogno di verità. Dal fondo della paura, dell'esitazione, ma sopratutto della sonnolenza in cui trascorriamo la gran parte della nostra vita e nella quale ci eravamo appiattati, nel momento deci18

sivo in cui un'immagine convincente seduce al bisogno di verità comandando una ricerca e ingiungendo un nuovo tormento senza il quale non si saprebbe come vivere, in quel momento si spicca il salto verso la parola e l'azione. La verità è la decisione di ricominciare perché una rappresentazione imponente ha suscitato il bisogno di cercare. Potrei dire che da allora si è nella verità, verso la quale non ci si può avvicinare di tanto in tanto, ma in cui ci si deve già trovare per effetto del sopraggiungere di una rappresentazione, di un'immagine influente che ci ha colpiti; e che ci abbia colpiti consiste nella circostanza che ora dobbiamo cercare secondo il suo senso. Nessuno in effetti ha mai proceduto in un processo di indagine coordinato e mirato a scoprire se la sfera della pulsioni sessuali sia la matrice dei comportamenti umani. Come sarebbe infatti? Qualcuno cerca la matrice per unificare la spiegazione degli atteggiamenti umani e delle conformazioni della storia espressi dalla civiltà umana e, al termine di questa ricerca, incontra la sfera delle pulsioni dell'inconscio? E quindi commenta la verità trovata, dicendo magari: «Ecco, è da qui che discende il principio della spiegazione di ogni tratto dell'esistenza degli uomini e della loro storia»? E come potrebbe dirlo, come potrebbe cioè istituire il confronto tra i fatti e quella spiegazione, se non avesse sin dall'inizio coinvolto i fatti nei termini e nel paradigma influente di quella spiegazione? La realtà è che se così fosse, noi potremmo allora soddisfare quel confronto con qualsiasi cosa; soltanto non faremmo un discorso, ma è come se affastellassimo in un magazzino oggetti della più svariata natura. Non avremmo l'ordine del discorso, ma il disordine degli oggetti messi insieme a caso. E invece: la rappresentazione di una scena oscura e inconscia della sessualità, dalla quale emergono le conformazioni dell'attività psichica, costituisce quell'immagine che ci colpisce e ci avvince generando per noi un bisogno di ricerca. Da quel momento comincia la verità: quello a partire dal quale un'immagi19

ne· seducente ha generato un insopprimibile bisogno di ricerca. La verità è questo trascorrere della ricerca sotto l'ingiunzione di un'immagine influente. Nel frattempo i «fatti» saranno diventati fatti diversi nella nuova luce dell'immagine che costituisce la loro trasfigurazione. Questa condizione rende ragione del fatto che i pensieri prima o dopo diventano falsi; non già perché essi siano stati confutati, perché se è per questo non erano stati nemmeno dimostrati. No, i pensieri diventano falsi per il sopraggiungere di un'istanza di una nuova verità, di un'immagine che scopre una postazione nella quale la persona, la soggettività vengono a trovarsi inaspettatamente. Eppure, è proprio in questa traslocazione, in questo spostamento nel corso del quale tutte le cose si rimettono in movimento che si verifica il bisogno, l'istanza, lo stato della verità. E naturalmente si era parlato, anche prima che tale evento si compisse, di «vero» e di «falso», di «senso» e di «nonsenso»; e ogni giorno se ne parla, al di fuori di quello spalancarsi di una dimensione in verticale da parte di un'immagine influente che genera il bisogno di verità. Anche al di fuori di tutto questo se ne parla ogni giorno di «vero» e di «falso», di «senso» e di «nonsenso»; e la differenza decisiva tra queste due situazioni è che nella seconda «vero» e «falso», «senso» e «nonsenso» sono termini impiegati in maniera sintattica, e non semantica. Cioè, sono praticati senza immergerli nel contesto di una situazione complessiva di vita e di decisione indotta da un'immagine influente e imponente che genera il bisogno dell'interrogazione. È questo l'uso di «vero» e di «falso», di «senso» e di «nonsenso» che è praticato da quella che si potrebbe definire la comunità sintattica degli uomini. Essi proferiscono i termini «vero» e «falso», «senso» e «nonsenso» secondo le connessioni formali che, sotto determinate regole prefissate, si possono stabilire tra le componenti del vocabolario ordinario. Ma è questo l'uso di quei termini che non è accompagnato dalla generazione di uno spazio 20

di verità, di una nuova regione di senso nei quali si produce la spinta a cercare e ad accendere le luci di senso intorno a fatti che prima non erano percepiti oppure erano constatati e recepiti in modo inerte, senza impegnarsi in una nuova decisione e senza impegnarsi a vivere in maniera diversa. La comunità sintattica degli uomini impiega ordinariamente i termini «vero» e «falso», «senso» e «nonsenso», ma è tanto lontana dalla ricerca di senso e verità quanto lo è il semplice enunciare regole rispetto alla loro applicazione in un contesto definitivo. E la differenza che qui corre non consiste meramente nella diversità che sussiste fra il trattare una cosa in astratto e il trattare la medesima cosa in concreto, perché c'è da dubitare seriamente che la cosa, nei due casi, sia intanto rimasta da_vvero la stessa. La regola, la parola, l'espressione vengono impegnate nel corso della decisione, dell'applicazione, sono la loro stessa decisione intransitiva, la loro stessa applicazione intransitiva. E qui «intransitivo» significa che il corso dell'applicazione della parola, dell'espressione, della regola non poteva essere comandata da qualcosa che risultasse precedente alla decisione e all'applicazione. Soltanto al termine di una decisione, di un'applicazione, al termine di ciò che si è detto e fatto potremo rintracciare e scoprire ciò che volevamo dire e fare. E anche per questo la parola, l'espressione traccia per così dire un destino. Parlando e agendo io formo il mio destino, ma per quanto lo formi e lo costruisca, altrettanto poco sono in grado di conoscerlo e di comandarlo. La comunità sintattica si attiene alle forme del «vero», del «falso», del «senso» e del «nonsenso» e le trattiene presso di sé come regime di pure forme. E trattenendole presso di sé nello stato di un mero possesso somiglia a quei proprietari di castelli che si limitano a staccare biglietti per i visitatori, ma senza vivere il castello o senza vivere nel castello. La persona sintattica non si coinvolge nello spazio di ricerca che è illuminato da un'immagine. 21

Invece, l'immagine influente e seducente che si impone in una situazione della vita configura di colpo un ordine tra le cose e suscita da questo momento in poi il bisogno dell'integrazione, il bisogno della pura interrogazione, come se dalla verità che è balenata come un nuovo aspetto delle cose, e dalla quale usciamo convinti, si generasse altra verità. La verità così compie il suo viaggio insieme a noi, lungo l'orizzonte dell'interrogazione che è lo strenuo sforzo indotto da un'immagine influente. Un'immagine seducente e memorabile ci impegna nello spazio che apre, nelle vie che accende, fa desiderare verità; perché ci dovrà essere pure una ragione per la quale la cerchiamo questa verità, e invece la cultura tradizionale ha assunto l'impresa cognitiva come se essa fosse una proprietà naturale e ovvia dell'essere uomo. L'immagine influente e memorabile suscita decisioni e risolutezza, coinvolge la commozione e la passione della verità, innesta la partecipazione del corpo, dello sguardo, della voce a questo campo di forze che è la vita e in cui la verità si esercita. E così quella nozione di verità come fine ultimo o come raggiungimento dello scopo o come concetto limite delle approssimazioni cognitive umane, cioè la nozione di verità esiliata in luoghi lontani e sconosciuti ritorna vicina, è restituita a questa cosa che trascorre, che impegna, con la quale non si può far finta di nulla e in cui non ci si può perdere in infingimenti, con la quale non si può nemmeno scherzare, e che è tutta la nostra vita. Per tutti gli elementi che sono stati esposti sopra, anche la figura del maestro deve essere riconsiderata in una luce diversa. «Maestro», posto che un'espressione del genere abbia legittimità è colui che impartisce una tecnica, che offre strumenti per risolvere problemi, che presenta a scolari o discepoli o alunni (come che si vogliano chiamare) un vocabolario, un assetto di assunzioni, di principi e di procedure. Ma nella sua accezione più comprensiva, che è quella più consueta, maestro è una guida per pensare, e 22

infine è un depositario di verità. La figura del maestro così definita finisce per somigliare ad un sovrano, ad un monarca, e vi sono in effetti paesi che non disponendo più dell'istituto della monarchia l'hanno rimpiazzato con l'istituto borghese del maestro di pensiero o maestro per pensare. E spesso, talvolta indipendentemente dalle loro intenzioni, i maestri hanno generato la setta, cioè il gruppo di individui che, facendo per esempio filosofia, incalza a mezzo di argomenti gli altri uomini così come il ricattatore incalza la sua vittima. Per definzione è il ricattatore che dispone di argomenti, ed è ancora per definizione che la vittima ne è sprovvista. La «verità», che è comunicata da questo tipo di maestri, non apre nessuno spazio di ricerca, di interrogazione e di piacere della verità; condanna piuttosto al terribile potere della ripetizione. L'alchimia didattica del maestro, se passiamo dalla filosofia alla politica, è quella di trasformare la «verità» che trasmette in uno strumento di violenza; un vero e proprio dispositivo didattico che mentre trasmette «verità», in realtà fornisce istruzioni per la violenza, l'eccidio e l'assassinio. La didattica politica di Pol Pot ha impartito ai bambini le più sottili e le più sadiche tecniche per individuare i «nemici» e una volta «smascherati» per torturarli e ucciderli. Questi, e molti altri ancora naturalmente, sono i differenti livelli ai quali i maestri, in quanto depositari di verità, sono maestri di violenza che diventano esercitatori di violenza. Un maestro inteso come depositario di verità ha un eccidio dentro di sé ed è al tempo stesso il culto di questo eccidio. Certo, non è facile riconoscerlo e scoprirlo questo eccidio predisposto e centrato nel maestro. Molti dei suoi discepoli o seguaci possono stentare a scoprire questo spettro nascosto nel maestro. Ma si sa che lo spettro non è visibile a tutti, ma solo a coloro che sono passati per esperienze dolorose. Guardano tutti nella medesima direzione ma alcuni non vedono nulla, mentre altri lo scopro.no perché la sofferenza a lungo inespressa e covata glielo fa vedere. 23

Agli occhi di questi ultimi, magari afflitti da un senso di colpa per un tradimento che non hanno in realtà commesso, il maestro non è più qualcosa di vero, ma qualcosa di terribile. Potranno d'ora innanzi provare per lui l'odio, il rancore, oppure magari successivamente la compassione che si prova per la terribilità che è fine a se stessa, che sopratutto è sola; che cioè non ha un filo di unione con il piacere della verità e l'esaltazione della vita. Perché era questa presunta unione che semmai costituiva l'incanto del maestro. La verità non si trasmette e nella misura in cui lo si fa, c'è un misterioso processo chimico che provvede a trasformarla in un precipitato di imposizione e di violenza. La verità non si trasmette; non si può portare la gente al vero, e non si può nemmeno portarla al bene. La si può portare da qualche parte, al ristorante o a teatro o su un prato, ma non al bene. La verità non si può trasmettere a mezzo di maestri perché la verità è fisiologicamente una trasgressione rispetto alle forme di verità trasmesse. La figura tradizionale del maestro e della verità trasmessa appartiene al modello obsoleto della comprensione intesa come recezione passiva di materiali. Ma questo, come tanti altri modelli della nostra cultura, è una rozza metafora trasferita da fenomeni naturali quali, per esempio, il travaso di un liquido da un contenitore in un altro, o l'estrazione di una nocciola da un guscio. E invece la comprensione di un significato e di una verità consiste in una reazione costruttiva che sopravvanza e assesta i materiali recepiti ad un nuovo, inaudito livello. Comprendere non è recepire, ma è sopravvanzare. E sarà magari per questo che la comprensione è un fenomeno indissolubile dalla forma della sua solitudine, dal coraggio della sua solitudine. È altrettanto indissolubile dalle imprese che si esperiscono con il rischio e il caso. Perciò l'atteggiamento nei confronti del sapere trasmesso non diviene verità fintantoché permane e indugia di fronte 24

alla letteralità del contenuto che le sta di fronte: lo diventa solo quando compie uno sfondamento al di là di esso. Paradossalmente allora la verità non la si trova dirimpetto al contenuto che è presentato, ma nella distanza che si è riusciti a prendere rispetto ad esso. Non ci si può precipitare sulla superficie frontale del contenuto che è presentato davanti agli occhi. Bisognerà fare un lungo percorso al di là di esso e lo ritroveremo come verità soltanto nella distanza che si sarà riusciti a stabilire rispetto ad esso. Bisogna andare molto lontano per ritrovare ciò che è vicino. Perché è a ciò che è vicino che prima o dopo bisognerà ritornare. Il vicino è così il ritrovamento nella lontananza. Non è forse per questo che soltanto dopo lunghi anni di incomprensioni, di scontri e di sofferenze inenarrabili, i figli riescono a stabilire la verità dei genitori, dalla distanza che sono riusciti a prendere da loro? E perché d'altra parte se i genitori, i maestri originari della nostra vita, dapprima sono stati i simboli del nostro disturbo e dell'insopportabilità si convertono, nell'orizzonte della distanza che si è prodotta rispetto a loro, nei personaggi non più della nostra insofferenza ma del nostro tormento? Cosa vorrà dire tutto questo se non che la loro verità, la verità su di essi, non era vicina a loro, ma che al contrario essa ha fatto la sua comparsa quando loro non ci sono più? E, ancora, cosa vorrà dire infine tutto questo se non che la verità dei genitori risiede nella loro morte? Dunque la verità è sempre la morte di qualcuno o di qualcosa. E forse per questo i santi e i martiri di una verità hanno prima o dopo avvertito che soltanto attraverso la via della loro morte poteva fluire il seme della verità che era in loro; che bisogna sparire e rimpicciolirsi nella distanza per diventare in un diverso modo grandi e presenti nella vicinanza. Sarà per questo che la ricerca della verità costa il sacrificio del cuore, del sentimento, ha il prezzo della volontà e non solo quello dell'intelligenza. Significherà pure qualcosa sul conto del concetto della verità, la circostanza che 25

essa possa trascorrere e trasmettersi attraverso il sacrifi- · cio e la morte, che non sono fenomeni i quali appartengano all'intelligenza. L'intelligenza comincia a ragionare sulle ceneri di un processo che non è prodotto minimamente da lei, ma dagli eventi della morte, del sacrificio, della decisione di andare lontano. Il ciclo delle verità, dei pensieri che prima o dopo diventano falsi per far posto a nuovi pensieri, corrisponde al ciclo delle generazioni, delle nuove forme di vita che sopravvengono. Ogni nuova generazione, per essere, deve compiere la propria congenita trasgressione. La sua verità è la sua propria trasgressione rispetto alle forme del sapere e del magistero che le sono state trasmesse. Non è che vi sia un combaciare del gusto di ogni nuova generazione con le nuove forme di cultura, di musica, di arte, e di costume. E come d'altronde ciò potrebbe essere? Non esiste qualcosa come un confronto tra una generazione e il complesso delle forme di cultura che essa accetta e fa sue, prendendo le distanze dal-passato. Non esiste una distinzione di ques_ ti due fattori e poi la possibilità del loro confronto e del loro combaciare. Ciascuno di questi due fattori è dentro l'altro, è anzi l'altro. Ogni nuova generazione non sceglie, non opta per la cultura che sarà la propria; essa è piuttosto la sua stessa cultura, la verità che è la sua trasgressione. Ma la trasgressione non è il risultato di un previo confronto tra forme di cultura e di costume rispetto alle quali si compirebbe un'opzione. Non più di quanto si possa dire che il bianco ha scelto di essere chiaro, e il nero di essere scuro. Perché ogni generazione non esiste avanti al suo costume, al suo gusto e alla sua cultura; essa è piuttosto il suo costume, il suo gusto e la sua cultura. Non ha scelto la propria immagine influente tra altre, è la sua immagine assoluta e intransitiva. Ogni generazione convive con il suo modo di agire, con la sua cultura, con il suo costume nella forma di una tautologia. Ed è questa tautologia che risulta così impervia ad ogni ·spiegazione. Sarebbe 26

un'impresa disperata spiegare perché una generazione si ritrova proprio in un certo, definitivo gusto musicale. «Ma perché proprio questo?», si domanda chi vuol spiegare, si chiede l'uomo o la comunità sintattica. E l'impossibilità e la disperazione di quel tentativo dipendono dalla cecità che si oppone, e che si oppone in modo testardo, alla tautologia nella quale convivono e si stringono insieme ogni generazione e il suo gusto musicale, il suo costume e la sua cultura, la loro incredibile somiglianza. La riluttanza e la difficoltà di riconoscere questa tautologia risalgono alla tendenza tradizionale a postulare l'esistenza indipendente degli oggetti, delle forme di cultura, del costume rispetto ai soggetti umani percipienti o giudicanti che procederebbero poi a stabilire confronti, comparazioni e opzioni. Ma come sarebbe in qu�·sto caso? Questi oggetti e forme culturali esistono realisticamente, in una sfera indipendente, magari come le idee di Platone? E ci sono sempre stati e qualcuno li sceglie e qualcuno li scarta? Voglio dire: era già tutto pronto? Oppure, mettiamo che, siccome la prima alternativa è controintuitiva, quegli oggetti e quelle forme di cultura e di costume sono stati costruiti e formati dagli uomini e che poi in seconda istanza essi hanno proceduto a fare confronti e a scegliere fra i prodotti del loro agire? Vogliamo dire che hanno costruito una varietà di forme di cultura e di oggetti senza credervi e solo successivamente si sono riservati di giudicare ciò che era buono e ciò che era da tralasciare? In realtà non c'è nessun confronto del genere, né nel primo, né nel secondo caso. Le generazioni non sono i teoremi della propria esistenza. Le generazioni non hanno confrontato forme di vita, modi di agire, gusti musicali, perché la vicissitudine del loro impegno non è stata quella di scegliere, ma di essere. Esse non scelgono, non fanno confronti tra materiali disponibili o pre-costituiti, ma assumono la forma del loro esserci, e questo esserci è la loro cultura, il loro costume, il loro gusto musicale. Non hanno scelto le loro canzoni come le migliori, ma 27

cantano le loro canzoni allo stesso modo che vogliono esserci. Solo a questo punto, se uno vuole, potrà anche dire che esse trovano le loro canzoni come «le migliori» Ma bisognerà ricordarsi, in ogni caso, che ciò che per esse è migliore era senza termini di confronto. I maestri offrono alle generazioni criteri, modi di valutazione, oggetti di opzione con il corredo delle loro applicazioni e procedure. Essi insegnano in ogni senso, ciò che è migliore. Ma le generazioni che li ascoltano non cercano il valore, ciò che è migliore; vogliono più semplicemente l'essere, il loro essere. Non vogliono confrontare, perché piuttosto vogliono respirare. Soltanto dopo che avranno introdotto il loro essere, lo stato della propria ontologia, potranno anche dire con l'uso del vocabolario che il loro essere è «migliore» di qualsiasi altro. Ma ciò che le generazioni fanno e formano, sia ben chiaro·, non nasce da ciò che è migliore. Non ci ·sono cose e eventi che fanno maturare gli uomini; piuttosto: gli uomini mutano insieme alle cose e agli ev�nti. Il primo maestro di verità è stato per ciascuno il proprio padre. La figura paterna ha configurato una scena primaria di memorabile solidità nei confronti di oggetti, valori, gusti e scopi. Essa ha instaurato un vocabolario di concetti e di espressioni che è altrettanto forte quanto lo deve essere l'ordine essenziale delle cose. Più o meno a lungo i figli, una generazione si esercitano in quella scena e in quel vocabolario; si esercitano nella comunità sintattica e sono figli, la generazione fino allora «sintattica». Voglio dire che sostanzialmente non vivono di vita propria, ma coesistono come parassiti nella simbiosi con il padre-maestro. E sarebbe troppo semplice e banale asserire che i padri sono dei tiranni. No, i padri mettono in atto una strategia molto più complessa e sofisticata, perché essi impongono ai figli una doppia impossibile ingiunzione. Questi devono ripetere ciò che il padre li ha fatti essere perché altrimenti essi uscirebbero dalla scenario instaurato; ma 28

se obbediscono all'ingiunzione fino al caso limite della ripetizione letterale, con la perdita di una qualsiasi volontà indipendente, essi prima o dopo vengono sprezzantemente definiti come «parassiti», come insetti della casa. Sembra che questi esseri che sono i figli . si trascinino per la casa lasciando una scia bavosa e ripugnante. Ma essi non possono nemmeno balzare fuori un giorno come esseri autonomi e indipendenti, perché questo sarebbe il tradimento, l'ingratitudine più dolorosi e cocenti. I figli sono posti di fronte alla doppia ingiunzione che comanda di essere eguali ai padri e al tempo stesso di essere diversi da loro. Questa ingiunzione paradossale sorge perché il padre non vuole in realtà qualcosa che riguardi i figli; in nessun modo lo vuole, né francamente lo può. In realtà egli vuole solo se stesso, ed è solo a se stesso che egli mira, anche se sembra che stia guardando i figli. In effetti, lui vede i figli, ma non li sa o non può guardarli. Lui vuole essenzialmente la continuazione, la proiezione di sè nei figli. Ma se il figlio ripete il padre nella sua letteralità, egli non sarà ciò che il padre pretende da lui, e cioè il compito di realizzare le immagini, i simulacri della figura paterna, che pensa e proietta sé nella figura del figlio. Ma se quest'ultimo sperimentasse l'altra alternativa, e cioè si manifestasse come un essere diverso, autonomo e indipendente, allora si macchierebbe di tradimento, di infedeltà e di ingratitudine, perché egli non può in alcun modo impersonare quello che d'altronde non esiste da nessuna parte in modo effettuale, e cioè la proiezione del padre su di lui. Il padre è, per così dire, già dentro il figlio per continuare sé, ma il figlio non è dentro il padre e le sue proiezioni immaginarie. Anche per questo la gioia, l'euforia, la pienezza di vivere del padre risultano essere altrettanti oggetti di tormento per i figli. E sarà per questa ragione che le reazioni dei figli sono il lutto che si contrappone alla futilità dei sorrisi e della felicità dei genitori, così leggeri, amabili e facili nella corrente della vita. Lutto è la resistenza che i figli oppongono, in maniera 29

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