Il piccolo Hans - anno XIII - n. 49 - gen./mar. 1986

combinare il linguaggio secondo gli assi che lo compongono. O che mostra disaffezione al lavoro della lingua: disinvestimento: melanconia. Non gli va di parlare: non c'è per lui abbastanza profitto di piacere. Basta pensare a Taxidriver, all'Arancia Meccanica. E confrontare quella povertà linguistica con il ritmo del dialogo di certi vecchi film americani (moderni, questi): dove il dialogo è gioco e piacere, e tutto il dialogo avanza inarrestabile, fecondandosi del guadagno di piacere che ogni volta ricava dalla vittoria sul buco di silenzio che potrebbe aprirsi nel dialogo umano, ma che sempre la battuta ricopre. L'uomo post-moderno è invece uomo di terrificante laconicità. Terrificante perché sempre è inquietante un corpo sociale che perda relazione alla parola: come quei subnormali che popolano il villaggio tra le montagne di Deliverance (che in italiano suona Un tranquillo week-end di paura). _ Vi sono stati antenati di questa afasia. V'è stato il silenzio eloquente dell'eroe hemingwayano: eloquente perché custodiva in silenziosa latenza l'anima bella dell'eroe che, non trovando più nel mondo parole a cui appassionarsi, e in cui credere, rinchiudeva nella ritualità del gesto e del silenzio l'espressione di sé; e pur usando poco linguaggio creava uno stile di discorso retorico addirittura, a volte prolisso. E v'è stato il silenzio di Lord Chandos, che non parlava per troppa urgenza e pienezza. Perché il mondo era troppo ricco di voci e di presenze: così da mettere in scacco ogni pretesa di dominio linguistico del mondo stesso. Ma l'afasia postmoderna non è la stessa: questa pare piuttosto consistere in uno svuotamento dell'efficacia rappresentativa del soggetto stesso. Se questo nostro contemporaneo non parla più non è per eccesso: ma perché non pensa, non sogna, non simbolizza più. Ciò che propriamente accade, sembra, è che impazzisce. Come il taxidriver, o il motor-cyclist di Pirsig. 78

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