Il piccolo Hans - anno XIII - n. 49 - gen./mar. 1986

anche che alla fine lo assume quel nome, nel segno della morte. L'eroe romanzesco, quand'anche all'inizio rifiuti l'imperativo del padre, come fa Robinson, tuttavia alla fine ne accetta il mandato. Esemplare in questo quel testo inaugurale del moderno, il Wilhelm Meister: per la rapidità fulminea con cui Wilhelm, saputo della morte del Padre, si riscuote dal lutto, e «con occhi sereni» guarda «al presente e all'avvenire». Così, senza batter ciglio, Wilhelm seppellisce il padre, ma perché ne ha assunto la logica del superamento, dello sviluppo, e dell'innovazione. Il figlio Robinson è un buon figlio, anche se prodigo (almeno in avventure) perché dinamizza un certo modello: non lo sovverte, ma ne incrementa la potenza. Non più così linearmente si trasmettono eredità, e operano sostituzioni e scambi di posto tra padre e figlio nel mythos postmoderno. Intanto, il Novecento in alcune scritture ha già narrato un certo inciampo, una certa interruzione registrata rispetto alla catena. Il Novecento ha certamente detto una filialità orfana, spodestata; quando il figlio Kafka dice al padre, non voglio essere come te. Non posso essere come te. E tuttavia, pur sottratto alla mia destinazione, pur scartandomi rispetto a quel destino di figlio che diventerà padre, che altro posso fare se non restare figlio? C'è un modo di sfuggire alla sfera paterna? C'è un modo di evadere dalla sacra famiglia? O non è vero che essa domina anche quella scrittura oltremodo labirintica e frammentata che è il Finnegans Wake? È la domanda di Joyce come di Kafka, a cui i due scrittori danno corpi estremamente differenti. E tuttavia tra l'uomo magro e anoressico di Kafka e il verginale, in­ . corporeo Stephen di Joyce non corre forse la stessa inquieta resistenza a rotolare lungo la destinazione filiale? Ma il punto è - così Lacan ci ha insegnato a leggere il tragitto della lettera rubata - il punto è che la lettera, che sia rubata o meno, non arriva forse sempre a destinazio73

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