Lutto il peso di una immagine che incombe ossessiva sulla nostra epoca, e la inquieta: sì che questa nostra età è stata pensata precisamente come the age of exhaustion. In questo senso, la letteratura postmoderna, in America almeno, si farebbe carico del peso epocale di portare alla superficie (se non di rendere superficiale) una paura, o un sentimento, la Stimmung di questa epoca. Quest'arte superficiale, questo modo bastardo, cumulativo, ripetitivo, postumo, di raccontare; questa letteratura che Joyce direbbe è un insieme di letter e di litter, linguaggio e spazzatura di linguaggio, non tanto lamenterebbe la morte dell'arte, ma porterebbe a manifestazione, secondo quel movimento di svelamento e di rivelazione che è proprio all'evento artistico, la bellezza/verità della nostra epoca - che è appunto l'età dell'exhaustion'. Exhaustion significa esaurimento, fine, dare fondo - in questo caso prima di tutto alla lingua, e all'immaginazione; e tuttavia, non si può non notarlo, la postmodern fiction prolifera. Le sue opere sono spesso monumentali: basta pensare a Pynchon, ai suoi voluminosi testi. Dunque, questa fiction non è dell'esaurimento perché dà fondo alla lingua, o ne contorna lo svuotamento: anzi, questa necessary fiction (dove necessary ha il senso che l'aggettivo ha per il poeta Stevens: è cioè necessaria come tutto ciò che proprio perché incessante trova la sua legge in una sorta di ananke vincolante e fatale) ha a che fare con l'exhaustion in un senso assai diverso: nel senso che è la manifestazione di qualcosa che potremmo chiamare, con qualcuno che l'ha veramente fatto, la fine della modernità. Non c'è nulla nei romanzi postmoderni, nulla che li ponga come delle sperimentazioni, delle continuazioni di certe rotture che furono del Novecento. Nemmeno i più grandi, come Pynchon, o Elkin; né i più intelligenti, come Gass - nessuno di loro sta facendo qualcosa di così nuovo che valga la pena di leggere. Non c'è in quella scrittura nessun rischio. Non ci si sta giocando nulla: se non questa 70
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